i racconti erotici di desiderya

Numeri sulle torte e poco più

Autore: Phares
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Il dodicesimo compleanno lo ricordo perché mi regalarono un cane, un bel cucciolo di pastore tedesco. Immaginando che sarebbe diventato grande e coraggioso, una micidiale arma da difesa, lo chiamai Rocky, il nome più feroce che riuscii a trovare. Ricordo che compivo dodici anni perché sulla torta non trovai una candelina per ogni anno come le altre volte, ma una a forma di uno e l’altra a forma di due. In seguito mia madre avrebbe comprato una serie di numeri di plastica buoni per ogni occasione.

Pochi giorni dopo Rocky fuggì dal giardino dei nonni e andò a nascondersi a casa dei vicini. Gente modesta e perbene, tre figli maschi e soprattutto una femmina di venticinque anni. Attorno a lei ruotavano i miei primi e confusi istinti, le mie prime fantasie. Era bella e generosa, almeno quanto la natura lo era stata con lei, ed erano in tanti quelli che avrebbero voluto approfittare della sua generosità. Lo si capiva da come gli uomini le piantavano gli occhi addosso e dalla quantità di voci maligne che le loro mogli mettevano in giro sul suo conto.

Corsi a recuperare il mio cane, chiamai mentre varcavo il portone sempre aperto che dava sul grande giardino. Il giardino era la loro casa, attorno ad esso c’erano quattro umili costruzioni indipendenti, erano la camera dei genitori, quella dei ragazzi, la cucina e la camera di Adele. Per andare da un ambiente all’altro si doveva attraversare il cortile passando sotto il grande e verde albero di limoni. Più in là, nel cortile sul retro, sentivo l’abbaiare monotono di un cane chiuso in un piccolo recinto. Sulla soglia della sua camera Adele era chinata ad accarezzare Rocky, sentì la mia voce e sorrise mentre entravo.

-Ciao Leo, è il tuo cane?

Mi scusai per l’intrusione, ma non ce n’era bisogno, era stato amore a prima vista. La mia futura guardia del corpo era stesa a pancia in su davanti alla visione più meravigliosa dei miei primi dodici anni. Adele era in carne, carne bianca e invitante, il vestito azzurro, sottile era un superfluo velo di pudore, faticava a contenere l’irruenza del suo corpo che chiedeva solo la libertà di esplodere in tutta la sua provocante vitalità.

Non so cosa mi prese, ero folgorato da tanta rotonda abbondanza. A quei tempi ero timido al limite dell’apatia, eppure da qualche parte dentro di me trovai il coraggio per allungare una mano e infilarla nella sua scollatura. Il contatto con quel paradiso fu una sferzata che mi scosse dalla punta dei piedi fino all’ultimo capello, ma durò una frazione di secondo, il tempo che le servì per rendersi conto di cosa stesse accadendo e fulminarmi con lo sguardo. Mi ritrassi umiliato, pronto a una fuga che le gambe rigide non mi consentirono. Poi, fulminea come era apparsa, quell’espressione di improvvisa indignazione sparì dal suo volto e lasciò il posto a un sorriso complice. Mi prese la mano per condurmi nella camera e spinse la porta dietro di me. Fece scivolare il vestito lungo le spalle accompagnandolo con un dito.

-Prometti che non lo dirai a nessuno.

Promisi, in quel momento avrei barattato qualunque cosa, lo feci senza dire una parola, volevo essere pronto, se il cuore mi fosse schizzato fuori dalla bocca, lo avrei trattenuto con i denti.

Non avevo mai visto una tale meraviglia, quel seno riempiva la stanza, colmava i sensi e svuotava di significato ogni altra cosa. Quando ci posò sopra la mia mano pensai che per la smania sarei potuto impazzire. Per la prima volta sapevo cosa avrei dovuto fare dell’inturgidimento dentro i miei pantaloni, era davanti a me, di più, era tra le mie mani.

Le dissi che era bellissima con la poca voce che mi rimaneva.

-Diventerai un gran bel ragazzo Leo. Peccato che tu non abbia vent’anni.

Mi baciò in punta di labbra e si rivestì. La vita era ingiusta, perché non avevo vent’anni? Avrei potuto renderla la donna più felice del mondo, avremmo fatto l’amore per ore, per giorni interi, senza conoscere stanchezza e appagamento, non con quel seno e quella pelle bianca e liscia. Invece i miei vent’anni erano distanti un’insopportabile eternità.

Che ingenuo! Mi svegliai ventenne in un tempo che allora mi parve non più lungo di una notte di sonno profondo, a ripensarci oggi breve quanto un battito di ciglia. Il tempo non ha significato, se non dentro le nostre teste contorte. Quello migliore della mia vita esisteva solo nei tanti ricordi di facce, di voci e di sorrisi, ma se mi guardavo indietro, mi pareva di non aver avuto modo di viverlo davvero.

I vent’anni arrivarono e io incontrai ancora Adele. In un giorno di novembre in cui il maestrale faceva tenere lo sguardo basso, appena un passo avanti al tuo. Non la vedevo da anni, si era sposata. La vidi mentre entrava in casa, bella come in quella mattina di fine marzo, generosa come quella mattina, solo un po’ più triste nello sguardo. Lessi il numero civico e il nome della via, li cercai sulla guida telefonica scorrendo uno per uno tutti i nomi, non conoscevo quello di suo marito. Ci vollero un paio di giorni per trovare il coraggio di chiamare. Non so cosa avrei fatto se avesse risposto lui, non me lo chiesi. Non ce ne fu bisogno, al telefono sentii la sua voce, ancora la riconobbi subito. Mi congedò con garbo chiedendomi di non telefonare più. Il giorno dopo riattaccò di malo modo minacciando di raccontare a suo marito delle mie molestie telefoniche. Decisi di lasciar perdere, quell’uomo era un colosso che era meglio non fare incazzare. Ma l’indomani cambiai idea e alzai ancora una volta il ricevitore per comporre il suo numero. Finalmente, per sfinimento o per curiosità, mi ascoltò, parlammo a lungo. La chiamai tutti i giorni per una settimana, fino a quando ancora dovetti barattare, questa volta un incontro con la promessa che non ne avrei chiesto un secondo e che, per la mia e la sua salute, avrei smesso di cercare guai.

Andai da lei e scopai come non avevo mai scopato prima, come se non avessi mai scopato prima. Affondai nella sua carne bianca e in quel seno procace e genuino otto anni di fantasie e rimpianti. La vita era giusta, era bello avere vent’anni.

Da queste parti il maestrale è una costante, dieci giorni al mese spazza i pensieri portandoseli via nella sua corsa a folate verso sud-est. Sono intento a rincorrerli quando le nostre strade si incrociano di nuovo, fatico a riconoscerla sotto il peso di due figli, dieci chili in più e un volto stanco e invecchiato. Quando mi sorride ritrovo qualcosa della donna che ricordavo, ma è solo un lampo, dura un istante, come i dodici anni trascorsi dal giorno in cui mi lasciai inghiottire dalla sua carne. Il tempo non ha significato, se non dentro le nostre teste contorte e sui corpi che trasforma per poi distruggere. La vita è ingiusta.



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I vostri commenti su questo racconto
Autore: Pippo16 Invia un messaggio
Postato in data: 23/05/2007 13:45:40
Giudizio personale:
molto bello, fa riflettere; in più è godereccio.....

Autore: Lolalove_2006 Invia un messaggio
Postato in data: 23/05/2007 09:48:31
Giudizio personale:
finalmente un bel racconto che non sia di desy,forse dovevi curare d+ la parte erotica,sai a me piace toccarmi quando leggo i racconti erotici...la vita è ingiusta...potevi fare in modo di scopartela un\'altra volta la tua amica,ciao e grazie


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