i racconti erotici di desiderya

La notte


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La serata, no, la notte era finita. Nel modo più bello. Si sarebbe addormentato con un sogno. Come colonna sonora la sua radio, quella che lei non riusciva a sentire se non la sera, dopo il lavoro, quando rubavano gli attimi al tempo chiudendo tutto fuori per un’ora…. mancava solo la nebbia a cullarli.

Le luci delle auto, i volti dei ragazzi che si attardavano sul marciapiede, i lampioni acciaccati della loro Milano, i semafori, le puttane, la strada, tutto gli passava accanto muto, senza fare rumore. Come un bambino curioso e spaventato della novità che ha scoperto. Come la gente che ti si struscia contro il culo in metropolitana, senza nemmeno sapere che ha appena toccato un altro corpo. Come quelli che non vogliono pensare, che pensare fa male… fa piangere.

Tutto in silenzio, come per timore di disturbare il colore di un sogno che era talmente bello da meritare solo nebbia e luna… e buio.

La radio mandava un jazz nero degli anni ’20. una voce morbida, come i baci violenti che si erano scambiati l’uno nella bocca dell’altra… poi un country americano di quelli così dolci che pensi che forse Colombo non aveva sbagliato i tutto… poi Sting, malinconico come l’umidità di Londra, come l’idea consapevole di non potersi innamorare.

Era un uomo, un maschio, e quel venerdì non gli andava finisse senza orgasmo.

Non sapeva se sarebbe andato a casa a sognare, o se fosse finito tra le cosce senza nome di qualche puttana.

Non aveva ancora deciso.

Non sapeva se davvero si sarebbe addormentato con un sogno o con dello sperma secco gocciolante da un preservativo senza un buon sapore e appiccicato alla tristezza che si sarebbe addormentata sulla sua pancia.

Non aveva voglia di uscire quella sera, gli sembrava così triste uscire da solo “a caccia”. Era come un lupo, un animale che caccia in branco.

Il telefonino aveva emesso il suo segnale quando lui si era già deciso ad uscire, ad annegare la sua triste solitudine, di quel venerdì di un inverno che pareva primavera, in un bicchiere fatto di scollature e ragazze discinte.

“HO VOGLIA DI SENTIRTI” aveva scritto lei.

“Chiamami, anche in ti voglio” aveva risposto lui, e il T9 –strumento maledetto inventato per farci pensare di meno- aveva fatto il resto, errori compresi: in=io.

«Ciao Gioia» aveva risposto il Pirata. Usava quel “gioia” come fosse un nome proprio, il suo nome proprio….Gioia, Strega…erano così simili che gli veniva naturale, «Dove sei?»…chiacchiere… la aveva raggiunta.

Sperava che lo chiamasse, per dare un senso a quel venerdì, che non era mai uguale. Perché altrimenti non avrebbe potuto essere.

La strada gli sembrava più lunga del solito. I semafori non diventavano mai verdi, e poi, c’era sempre qualche lumacone di sessant’anni nella vettura che precedeva la sua marcia.

PAM. L’insegna del grande supermercato era il segnale che era arrivato.

Le sue gambe avevano già cominciato a cercarla. I suoi polpastrelli avevano sete di sentire i capelli della Strega scorrere come seta ruvida sotto la loro epidermide. La sua lingua aveva voglia del sapore di donna, della sua lingua umida e ruvida. Il suo sesso si eccitava al ricordo del calore del ventre della Strega. Un calore che aveva gustato dapprima in fretta, timoroso di offendere un non so che di ancestrale che si racchiudeva in lei, poi rubandolo al poco tempo che gli era concesso.. in modo tanto più dolce e profondo quanto lei gli si arrendeva.

La baciò prima ancora di salutarla. O forse dopo. Ma poco importa, voleva baciarla. Voleva consumarla, risucchiarla in se come fosse acqua…anzi no, come aria.

Adesso quel venerdì aveva un senso, anche se era durato solo quarantacinque minuti. Anche se quel marito alla finestra la infastidiva. Anche se le luci dei lampioni erano indiscrete come gli occhi di un curioso.

Si erano visti per caso, un giorno imprecisato di un Luglio caldo e umido come ne faceva spesso nella loro Milano, i un bar che lui aveva per caso scelto per quel pranzo. Lei ancora non c’era quando era entrato.

Era arrivata pochi attimi dopo.

Era entrata, sì entrata, non passava come passavano tutti gli altri avventori più o meno abituali… lei entrava.

La sua gonna nera e corta, la sua maglia scollatissima sul petto, allacciata con dei laccetti che lasciavano intravedere il solco che separava i seni, anch’essa nera come nera era la camicia di pizzo, o non so che, che la “copriva” appena sulle braccia e sulle spalle. Elegante. Come nere erano le sue scarpe decolletée. Nere le calze autoreggenti. Nero il reggiseno.

In netto contrasto col suo sorriso luminoso e felice, coi suoi capelli chiari e gli occhi, anche loro chiari.

Tanto nero alleggerito da un naso affilato, e da un corpo non perfetto, ma lui ancora non capiva perché. Lo aveva scoperto più tardi: per quella affascinante cicatrice lunga sul cuore, che lei indossava come un tatuaggio Mahori; per quel dito mignolo che non c’era solo per gli occhi; per le sue movenze da Wanda Osiris, da trans, da omosessuale. Così teatrali, naturali come il panno che chiude la scena..o che la apre, come il fatto che il sole è sorto anche oggi e probabilmente sorgerà anche domani. Un miracolo di cui non ci si chiede il perché. È così e ci basta. E se così non fosse non sapremo come fare, come vedere, come sarebbe possibile vederla.

Quanti anni aveva quella Strega.

Non importava. Aveva la stessa età del nero e della musica, cioè nessuna età. Era bella, come il nero e come la musica.

Il nero: tutti i colori e nessun colore.

La musica: tutti i rumori, ma non un rumore.



Mentre la strada scorreva in silenzio sotto le ruote di gomma della sua macchina, il pirata sentiva le parole dolci di lei: parole che lei stessa temeva, mentre lui le adorava;parole che le squarciavano la corazza che lei indossava tutte le mattine, da non so quanti anni fino ad allora. Forse da quando lei aveva scoperto un sesso diverso, che le aveva rubato la gioia di limonare in macchina, o sotto la pioggia, o sotto il getto di una doccia troppo calda e quella di non alzarsi dal letto di carne in cui aveva giaciuto fino ad allora, scrollandosi di dosso l’odore del sesso come ci si scrolla di dosso una foglia secca d’autunno che il vento ci ha buttato addosso. Un sesso diverso, che le aveva insegnato tanto, che la aveva fatta crescere più i fretta delle sue compagne di classe e delle sue amiche di quartiere, che aveva torturato i suoi capezzoli e le labbra della sua intima bocca; che non conosceva le coccole, ma solo la sensualità esagerata, l’orgasmo, la tensione data dal dolore e dal piacere di trasgredire… pur senza saperlo.

La prima volta che avevano fatto l’amore –o scopato come diceva lei, duramente, per non dare sentimento a quell’incontro di carni turgide- il Pirata si era addormentato con addosso l’odore di lei, e con quello si era svegliato. Con l’odore de suo sesso bagnato e fremente impregnato nelle dita, sotto le unghie, confuso col suo, di lui, nei peli pubici, in quelli della barba curata e sottile.

Si era svegliato con l’odore del corpo di quell’angelo nero tremante alle carezze della sua lingua, con lo spasimo dei suoi seni succhiati e morsi, poi sporchi di lui. Con l’odore serico della pelle della Strega, liscia, morbida e profumata anche dove non crederesti. Aveva fatto la doccia la mattina solo perché delle convenzioni, che forse no condivideva appieno, imponevano che non si rendessero partecipi gli altri del nostro piacere, della nostra gioia…della sua Gioia.

Un blues che sapeva di lacrime e di sangue lo accompagnava, malinconico e bello come la voce della nonna che gli raccontava di quando andava al lago con la Lambretta, con il marito e due figli sullo stesso pezzo di latta.

Averla incontrata era come per un fiume incontrare il mare, laddove il suo moto non si spegne, ma diviene onda, qualcosa di più grande, più impetuoso, ma con meno spigoli. Nonostante le corde con cui le legava i polsi al letto, perché lei si sentisse libere di essere sua, del suo Pirata; nonostante le sue dita che stringevano i capezzoli lunghi e già duri; nonostante le sue mani che battevano il suo seno e il suo nido. Nonostante la bocca avida della strega, scrigno segreto di un luogo di piacere che solitamente si trova altrove…nelle donne, ma lei non era una donna. Non una donna comune almeno.

Aveva il clitoride in gola. Un cazzo nel cervello e uno avrebbe voluto averlo tra le gambe, in mezzo alle quali, tuttavia, nasceva e si sprigionava una sensualità di femmina, di cui pochi altri esseri femminili sono consapevoli.

In lei era il femminino sacro. La stella di Davide, in cui il calie si fonde con la lama.

Una femminilità perversa e santa. Sporca e pure. Razionale come il sesso solo non sa essere.

Blues e sangue.

Unione e scissione.

Un lampo che trascendeva il tempo delle loro età, così diverse per come diversi erano gli ambienti in cui eran cresciute, in cui si eran formate.

Uno squarcio che separava la loro voglia di aversi e la consapevolezza di non potersi amare.

E allora fottetevi!

Fottiti tu Strega, e il tuo matrimonio, le tue sicurezze, le tue palle -che nemmeno dovresti avere.

E fottiti tu Pirata e il tuo essere diafano, romantico e sognatore, e che si fotta la tua voglia di fottere e il saperlo fare.

E allora non lasciate che finisca. Non lasciate che vi perda questa voglia di consumarsi da lontano.

La strada passava muta al suo fianco, grigia che nemmeno la vedeva.

La sua bocca ancora puzzava del rossetto di lei, quello stesso che lui consumava tutte le sere, o quasi, che era rimasto sulle sue labbra più forte del gin del negroni che aveva appena finito di bere. E lo sentiva più della musica forte di quel locale, da cui era scappato perché strideva, in attrito con gli attimi che si erano regalati… che lei gli aveva regalato. E ancora una volta gli aveva detto cose da tenere strette… che lei non era solita dire cose del genere a chi le passava tra le lenzuola.

Era un maschio, e non gli andava che quel venerdì sera finisse senza orgasmo. Non sapeva se sarebbe andato a casa a sognare, o se fosse finito tra le cosce senza nome di qualche puttana.

Ma quel venerdì aveva deciso che sarebbe stato uomo, non maschio… di quelli il mondo è pieno.

Aveva scelto.

Si sarebbe addormentato con un sogno, che tanto quella sera era finita con qualcosa di più che un effimero orgasmo, che dura pochi secondi. Era finita con un qualcosa di più forte, qualcosa che, se hai la fortuna che ti capiti, te lo porti a letto e ti ci svegli. Qualcosa che non diventerà forse il motivo per continuare domani, ma che se accadrà, sarà sempre bello come ieri.

Quella notte si sarebbe addormentato con un sogno… lo stesso sogno che prima di addormentarsi le aveva voluto regalare. Lei dormiva già, ma domani lo avrebbe ricevuto con un bip-bip… o come un raggio di sole d’inverno: pallido ma intenso.









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