i racconti erotici di desiderya

La lupa

Autore: Pingpongping
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Un tipo qualunque, con una vita qualunque aveva preso l’abitudine di passeggiare negli spazi inesistenti dove tutti si reinventano la vita e riescono a fare uscire le parti migliori o quelle peggiori che hanno dentro. Come molti altri trovava questa cosa affascinante, era come entrare in segreto in un mondo diverso, in una dimensione parallela fatta di cose bellissime e mostruose che all’improvviso prendono vita. Pensava che forse, in fondo, era semplicemente un alienato come tanti, che come tanti aveva trovato una via di fuga per sfogare una serie di frustrazioni. E come molti, non aveva il coraggio necessario per convivere con la realtà.

Di fatto quando entrava negli spazi inesistenti si metteva in caccia. Forse era questa la sensazione che più gli piaceva. Poteva essere un modo molto addomesticato di rivivere ciò che sta ancora dentro gli uomini dai tempi della preistoria: l’istinto della caccia e il piacere quasi sadico, feroce, della pista da seguire, le tracce da individuare, gli odori da riconoscere, l’adrenalina che sale mentre hai individuato la preda e già la stai braccando in silenzio e lei ancora non lo sa; e infine la fame feroce che ti sta spingendo e ti da la determinazione necessaria all’ultimo salto, quello fatale che conclude il gioco. E poi, ma questo lo avrebbe imparato dopo, quando la pancia è piena e gli istinti si sono placati una leggera sensazione di tristezza e quasi di pietà per la preda divorata. Un rimorso che permane fino a quando la fame di nuovo si farà sentire e gli istinti prevarranno su tutto il resto.

Era però un cacciatore atipico, nel senso che in quei territori che frequentava prevalevano stili rozzi e grossolani che non gli appartenevano. Non amava gli approcci frontali e violenti che non disdegnavano la volgarità e la cattiveria gratuita, era molto più adatto a muoversi in silenzio, quasi in punta di piedi, gli piaceva osservare da lontano, capire, pensare. E al momento dell’azione, più che un bruto che con la clava spacca tutto ciò che trova, era piuttosto un arciere che scoccava in genere una sola freccia. Cercava di usarla a colpo sicuro e nel caso non fosse andata a segno non avrebbe inseguito oltre la preda: un colpo a me e uno a te, se ti manco e scappi vuol dire che te la sei cavata. Ovviamente era uno stile di caccia assai poco produttivo ma come già detto prima, la cosa principale era le caccia in se, non tanto il divorare la preda, quello era un fattore secondario.

Vagando qua e la, seguiva qualche pista, trovava qualche traccia ma le cose si interrompevano presto: a volte perdeva la traccia, molte altre, una volta individuata la preda, non la trovava di suo gradimento e abbandonava l’inseguimento.

Poi, un pomeriggio di primavera, trovò una traccia interessante. Era una voce fatta di parole scritte che messe in fila diventavano una spada affilata, una preda potenzialmente pericolosa, forse addirittura una predatore travestito da preda. Una razza di predatore assai pericolosa, di quelle che non hanno gusto nel nutrirsi di lepri o topini ma che debbono mangiare altri carnivori. Il tipo non era così sprovveduto anche se non era certo un genio, e non gli ci volle molto a capire che molto probabilmente stava inseguendo un lupo travestito da leprotto. Ma era troppo tardi. Il piacere della caccia ormai lo possedeva totalmente e non riusciva più a tirarsi indietro, ad abbandonare la pista. Tra se si diceva che questa era una delle possibilità che potevano avverarsi, cioè trasformarsi inconsapevolmente (ma lui già lo sapeva) da predatore a predato, e allora in questa cosa c’era pur sempre una logica no? E quindi che le cose andassero come dovevano andare e al diavolo tutto il resto. L’adrenalina a 1000 spegneva ogni remora e comunque avrebbe venduto cara la pelle.

La donna con cui aveva iniziato a parlare aveva uscite geniali che lo stupivano, durante le loro schermaglie non riusciva mai a metterla con le spalle al muro, e se cercava di saggiare le sue difese in men che non si dica il discorso si rovesciava e si ritrovava lui a difendersi e a rintuzzare gli attacchi. Era una cosa che lo divertiva, troppo noioso il fatto di incontrare arrendevolezza e finta timidezza, tutto già visto e già provato. Ci voleva qualcosa di più forte. Cacciare il lupo era una cosa più stimolante e il lupo in questo caso non era nemmeno di primo pelo, non riusciva a identificarlo bene ma probabilmente si trattava di una lupa non giovane, con una posizione di tutto rispetto nel suo branco che probabilmente ogni tanto, per suo diletto, si concedeva qualche piacevole diversivo extra.

Le parole scambiate diventavano sempre più intime e dirette, era come se mano mano il bersaglio diventasse sempre più grande e gli avversari sempre più vicini. Aveva l’impressione che la lupa, oltre a fauci temibili e un cervello superiore avesse anche un’altra arma: una sorta di calamita che azionava di tanto in tanto e che lo costringeva ad avvicinarsi sempre più. Comunque era bello, correva verso il burrone e ne era conscio ma non voleva fermarsi.

Dalle parole seppe che si trattava di una donna di una sessantina d’anni, di grande cultura e con un animo segretamente vorace. Che camminava (come lui) in spazi di solitudine che nulla e nessuno sarebbe mai stato in grado di riempire e che si prendeva di tanto in tanto qualche licenza dalla vita di tutti i giorni, quella rispettabile, per riempire, momentaneamente, dei vuoti incolmabili. Ad un certo punto gli scambi di parole erano diventati così ravvicinati che aveva l’impressione di guardarla negli occhi. Erano occhi gialli di lupa, brillavano famelici cercando (senza riuscirci) di dissimulare lo sguardo da predatore. Rispecchiandosi nei suoi occhi capì di essere lui la preda e accettò definitivamente la situazione.

La voce che leggeva sul monitor gli disse chiaramente che non poteva in nessun modo esserci alcun domani alle loro schermaglie, le cose andavano avanti ormai da qualche mese e che il loro graduale avvicinamento era arrivato al massimo grado possibile, da allora in avanti le possibilità erano solo due: o si sarebbero gradualmente allontanati fino a perdersi (e la cosa sarebbe andata avanti ancora per qualche mese) o si sarebbero ulteriormente avvicinati, oltre il punto di non ritorno, per compenetrarsi l’uno nell’altra, per diventare solo per un attimo una sola entità ma che subito dopo sarebbero esplosi separandosi immediatamente per non incontrarsi mai più. Un po come se due componenti inerti di una miscela esplosiva entrassero in contatto: le molecole si incastrano spontaneamente l’una nell’altra, formano una nuova componente che esplode dopo un momento e che divide nuovamente le molecole sparandole in direzioni opposte e separandole in un istante ad anni luce di distanza. Delle due opzioni scelse l’esplosione, la corsa nelle fauci della lupa si stava completando. La lupa lo ringraziò della scelta e il tipo per un attimo pensò di vedere quegli occhi gialli e famelici distendersi in un sorriso.

La notte dell’incontro avvenne all’inizio dell’estate, era una serata calda particolarmente afosa, lui sarebbe arrivato ad un determinato indirizzo, avrebbe suonato al citofono di una bella palazzina in un quartiere bene della città e lei, sola in casa, gli avrebbe aperto; sarebbe entrato nella casa, avrebbe percorso il corridoio in silenzio e nella camera in fondo avrebbe trovato lei sul letto nuda ad aspettarlo. Non avrebbe dovuto mai accendere le luci e non c’era bisogno di parlare. Parcheggiò l’auto ad alcuni isolati di distanza e mentre si incamminava scoppiò improvviso un temporale estivo, fortissimo. Ebbe sollievo da quella pioggia violenta che in un attimo gli si rovesciò addosso. Era come se tutta la tensione accumulata durante i mesi di caccia e amplificata ora dall’imminenza dell’epilogo fosse esplosa; i tuoni, i lampi e le secchiate d’acqua fredda erano le energie che stavano trovando una via d’uscita e facevano calare la tensione smodata che lo attanagliava. La valvola di sfogo del circuito di sicurezza si era aperta perché la pressione era diventata troppo alta e il vapore che usciva abbassava la pressione del circuito. Si avvicinava all’indirizzo ormai fradicio mentre il cielo si riempiva di luci bluastre e di tuoni. Nessuno per la strada, solo lui. Suonò al citofono, la porta si aprì senza che nessuno rispondesse. Mentre saliva al piano si guardò riflesso nello specchio dell’ascensore, aveva l’aspetto di un disgraziato caduto accidentalmente nel fiume, era completamente bagnato, i capelli sgocciolanti e un laghetto che si allargava intorno alle scarpe a causa dell’acqua che filtrava dai vestiti zuppi. Ma l’immagine che vide non gli dispiacque. Uscito sul pianerottolo trovò la porta dell’alloggio, era socchiusa, entrò e se la richiuse alle spalle, la penombra in cui si era immerso gli permetteva di trovare la strada fino alla stanza. Percorse il corridoio e sebbene ci fosse silenzio percepì perfettamente la presenza della lupa che lo attendeva. Entrò nella stanza, dopo pochi passi si spogliò degli abiti fradici che abbandonò per terra, il tepore della stanza e il respiro della lupa lo riscaldarono immediatamente. Si avvicinò cautamente, il buio era profondo ma non totale e gli occhi ormai abituati all’oscurità percepivano la posizione del letto e il profilo non ben distinto della figura che vi era coricata sopra e ne coglieva il movimento del respiro che tradiva l’eccitazione per l’imminente esplosione. Era coricata sul letto, nuda con le cosce leggermente aperte. Si chinò su di lei e si inginocchiò davanti al letto, le allargò gentilmente le gambe e iniziò a leccarla. La sua lingua saliva piano piano dai polpacci alle cosce fino ad arrivare al pube, aveva un buon sapore e odorava di eccitazione. Quando iniziò a leccarle la figa la lupa iniziò a fremere, allargò le cosce il più possibile offrendosi completamente alla lingua dello sconosciuto che ora la stava leccando lentamente, dalla figa all’ano, con delicatezza. Il tipo amava molto quella manovra, era particolarmente gratificato dal percepire il fremito di godimento provocato dalla sua lingua, gli piaceva sentirla bagnarsi sempre più copiosamente e sentire l’ano che, inizialmente stretto e contratto dalla tensione, si rilassava gradualmente in seguito al contatto con la sua lingua e dalla lingua si lasciava penetrare. Era la chiave gentile per vincere ogni resistenza, un modo delicato per dire: ecco vedi? Non c’è nulla di cui avere paura, lasciami entrare, non ti farò male ora che sei morbida e aperta. Il tipo sentì le mani della lupa sui suoi capelli e pensò mentre succhiava il suo clitoride turgido che era bello essere lì a mangiarla mentre in realtà era lei che stava divorando lui. Poi la lupa venne.

Il resto dei ricordi è piuttosto confuso, in seguito il tipo non riusciva a ricordare perfettamente cosa fosse successo nel dettaglio, solo gli erano rimaste svariate sensazioni: di affondare dentro il corpo morbido della lupa, che tante erano state le vie attraverso cui gli era stato permesso di entrare; e infine di esserne diventato un’appendice mentre la penetrava e le loro lingue erano avviluppate insieme, che il suo cervello si fosse unito a quello della lupa e ne seguisse i comandi fino ad un ultimo contemporaneo orgasmo in cui erano davvero diventati un’unica entità. Forse in quel momento la lupa ululava, ma non ne era affatto sicuro, forse erano solo i comuni rumori di due amanti.

Continuando ad abbracciarlo la lupa gli disse poi che era quasi arrivato il momento di separarsi. Fu questa la prima ed unica volta che sentì la sua voce, una sorta di bisbiglio roco e dolce. Lui si riprese dal sopore nel quale era sprofondato e tentò di rialzarsi. Faceva una fatica bestia, non aveva più un briciolo di forza. Ancora sopra a lei la strinse forte e la baciò. La sua lingua aveva ancora un buon sapore ed ancora era così dolce e morbida. Ebbe la sensazione che stesse piangendo ma anche di questo gli era rimasto in seguito un ricordo confuso per nulla sicuro.

Infine si alzò, trovò a tastoni i suoi vestiti ammucchiati in un angolo, erano ancora fradici di pioggia e freddi. Il contatto con i tessuti bagnati lo risvegliò un po’, finì di rivestirsi e si avviò verso il corridoio nel silenzio più assoluto. Uscì di casa richiudendosi piano la porta alle spalle, scese le scale ed uscì per strada. Mancava poco ad albeggiare ma era ancora buio. Nessuno in giro e nessuna macchina. Si avviò verso l’auto trascinandosi con fatica. Era appena stato divorato, spolpato fino all’osso e non gli era rimasto più un briciolo di energia. A passi lenti, come un ubriaco, arrivò alla macchina mentre saliva dentro di lui quel sapore amaro che avrebbe poi meglio conosciuto. Quell’amarezza mista a tristezza e a dispiacere che prende il predatore dopo che la pancia è piena, forse quello stesso sentire descritto già dai grandi condottieri del passato da Alessandro Magno in poi, che spiega il sentimento che prende i soldati vincitori sul capo di battaglia, quando la battaglia è finita e si siedono esausti a riposare in mezzo ai cadaveri dei vinti di cui il terreno è disseminato. Tristezza, dispiacere, nausea, pentimento, solitudine buia. Forse il medesimo sentire che prendeva lui, la preda, dopo essere stato divorato.



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