i racconti erotici di desiderya

La cuoca, sigarette, freddo e delizie....

Autore: Rico819
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Quei giorni, me li ricordo freddi, pieni di neve. Era proprio quello che si dice un tempo da lupi. Dove eravamo andati noi, tra l’altro i lupi c’erano veramente. Eravamo partiti tutti insieme con dei miei amici, per un convento dalle nostre parti. Dovevamo rimanere lì, qualche giorno, in ritiro. Era dicembre se non ricordo male. Ci avventurammo con una macchina l’unica che avevo allora, dove, dal riscaldamento entrava una puzza di benzina incredibile, il tubetto del carburatore schizzava a più non posso e che faceva i suoi trenta, quaranta dignitosi chilometri all’ora in salita, ma tutti stavamo con una voglia matta di passare un po’ di tempo insieme.

Ci avventurammo per la stradina di montagna, tra le curve, e i ghiacci. Fortunatamente era passato lo scanzaneve. Dopo qualche traversia, soste di raffreddamento motore e svariate pause goliardiche, arrivammo nel paesino. Praticamente era disabitato, non un’anima viva a cercarla casa per casa. Eravamo fermi davanti al convento che si estendeva tra corridoi e giardini e bosco, quasi da un lato all’altro del paese.

Gli altri arrivarono in serata, qualcuno già ci aveva preceduto. Non eravamo molti comunque e ci conoscevamo tutti.

Quando entrammo ognuno si sistemò in una celletta di frate singola. C’era un materasso e basta. Lenzuola, copri-cuscino, tutto da casa. Un lavandino per stanza, con l'acqua calda, una piccola scrivania, una lampadina per il comodino e quelle coperti marroni militari, ruvide e pesanti, in quantità smisurata.

Col freddo che faceva, poi, capimmo perché.

Ero tutto eccitato, me ne gironzolavo tra i corridoi. Mi affacciavo di cella in cella, facevo gli scherzi. Il padre superiore che ci accompagnava, mi dava qualche sberla, bonariamente!

Andai ai piani di sotto, dove c’erano le cucine, la sala per la ricreazione, lo sgabuzzino. Insomma, mi misi ad ispezionare tutto. Mi perdevo tra corridoi e cunicoli. Il freddo intorno, la neve ovunque.

Sentii da lontano il “campanello” che suonava, praticamente una fune legata ad un campanaccio. Mi precipitai verso la grande porta d’ingresso. Vennero pure gli altri per aprire e per accogliere gli ultimi arrivati. Per aiutarli a portare i bagagli, per accompagnarli.

Lì, quasi ci si perdeva.

Al solito si disse: “Ciao”, “come va?” e tutte queste belle cose.

- Non chiudete! – disse uno – c’è ancora qualcuno fuori, forse la cuoca.

La conoscevo già la cuoca! Scontrosa, bruttarella, nel senso di: priva di ogni gusto, annoiata.

Non esistono donne brutte, esistono donne che non sanno capire la loro bellezza.

Che palla, tutte le volte. Era peggio lei che il padre superiore.

- E’ nuova – mi dissero.

Mi fermai, e tornai sui miei passi. “Nuova?” pensavo. E sinceramente la cosa mi incuriosiva.

Uscii per aiutare quella sconosciuta che già mi incuriosiva. Non so perché. Mi immaginavo una novità, e speravo sinceramente che lo stile di quella cuoca nuova non fosse lo stesso della vecchia. Mentre uscivo, sulla porta incontrai una ragazza, meravigliosa. Ci salutammo tra le righe perché non ci conoscevamo.

Mi tirai di lato per farla passare col suo borsone.

“Cazzo!” pensai, e ripeto, “cazzo”, ma andai avanti lo stesso. Probabilmente era qualche amica di una nostra amica.

Lì per lì, però, era un’altra la persona che mi interessava. Arrivato fuori, non vidi nessuno. Dove stava la cuoca nuova?

Mi voltai indietro, e vidi di nuovo quell’angelo con la borsa in mano che mi guardava e mi diceva: - scusa, ma si deve chiudere? –

Io ovviamente stavo come un ebete che la guardavo.

“Scusa si deve chiudere?” pensavo tra me, “cioè” mi dicevo “tu sei un angelo e mi stai parlando?”. Cazzo che botta!

Qualc’un altro rispose per me!

Avevo collezionato la mia prima figura di merda, ma sapevo che gli occhi che mi avevano fulminato sul portone e la cuoca nuova erano la stessa persona.

Da brivido…

Poi, mi misi a pensare. “Tu”, mi dicevo “con una così! Non ti montare la testa!”

La guardavo da dietro, lei, così spensierata, a tratti seriosa, che rideva alle battute degli altri, ma senza scomporsi anche per fingere un po' di distacco, che si faceva guidare tra i corridoi. Poi, lì per lì ci perdemmo di vista nel generale trambusto.



Ognuno per i fatti suoi. Riunione generale, direttive, spiegazione delle regole e via dicendo.

Nei giorni successivi, ci conoscemmo meglio, ma sempre in generale e sempre in mezzo agli altri. Credo che avessi già qualche rivale, ma non mi davo per vinto.

Una sera, forse la seconda, avevo finito le sigarette. Io, si fumava di nascosto. Avevo dei riti che rendevano tutto meraviglioso. Le regole ferree del convento il controllo del padre superiore, rendevano tutto molto intrigante. Ogni piccolo gesto di trasgressione, diventava una grande avventura.

Cominciammo a trasgredire io e la mia bella, quando a tavola ci guardavamo negli occhi o facevamo gli stupidi col sale o le oliere, a carezzarci la mano, a mandarci segnali.

Ero stracerto, che lei avesse delle sigarette. Avevo notato qualche sua sparizione, un appartarsi nascosto.

Quella sera insomma gliele chiesi.

- Mi sono portata una stecca – mi disse.

“Una stecca?” pensai tra me e me “tu così spavalda, così birichina, tu sei la donna che volevo”.

Seppi rispondere soltanto: - grande, sei stata proprio intelligente!

Classica risposta da cretino.

Credo che avevo collezionato la mia seconda figura di merda.

Il termometro delle possibilità andava su è giù ormai, impazzito.

Non so come, ma mi coinvolse in una confidenza molto più grande di quella che mi aspettavo. Avevamo il nostro segreto adesso, il nostro segreto, capite?. Non farci scoprire, tenerci per noi le nostre cose.

Alla sera, dunque appena possibile, correvamo fuori, attraversavamo il chiostro e andavamo su per certe scale, al buio, in una stanzetta con la porta aperta. Avevamo scoperto tra l’altro che un muro era caldo, perché corrispondeva dall’altro lato, secondo noi, a due termosifoni che stavano in un bagno e quindi nel corridoio.

Lì, non so come, ci tenevamo a volte abbracciati, ci tenevamo le mani, per stare caldi, ridevamo di stupidaggini senza senso. Si stava così, viso a viso, a sentirsi il respiro l’uno dell’altra.

Non so perché s'era creata fra noi questa cosa di starcene così vicini.

A volte, me la stringevo a dosso un po’ di più, a lei si vedeva che le piaceva, la sentivo sinuosa, nervosa. Aveva qualche anno più di me, ma eravamo come cretinetti, tutti e due.

Non so, ma forse questa era la parte più bella della giornata. Sentirsi quel corpo, sinuoso e nervoso addosso, quel tirare il naso insieme per il freddo.

Ci eccitavamo a vicenda in modo più o meno velato, ci stuzzicavamo praticamente fino all’accesso. Strofinarsi sul collo, baciarsi sulla punta del naso, sul collo, leggermente…

Durante il giorno eravamo irreprensibili. A volte anzi ero perfino triste, quando non mi considerava, ma lei era molto più furba di me, che già davo su di giri.

Una sera, non mi ricordo quale, di sicuro l'ultima per lei, comunque quella in cui, in casi come questi ti giochi il tutto per tutto, eravamo andati al nostro momento di giochi. Praticamente farci una fumatina era diventata una semplice scusa. Ci strusciavamo. La regola era: vietate le mani.

Non l’avevamo mai detto, ma in pratica era sott’inteso.

Non so se riesco a rendere, la sensualità, la perversione, ma anche l’eccitazione che si nascondeva in quel gioco. La vostra esperienza, potrà aiutarvi a capire meglio.

Quella sera però, feci il bastardo. Mentre lei era vicino a me, guancia a guancia, quindi figuratevi l’eccitazione che colava da tutte le parti, mi misi con la mano in giù davanti a me. Nel frattempo, sentii che lei si spingeva sul mio cazzo, perché lentissimamente, se lo appoggiava addosso, come per sbaglio.

Io cercavo di indurirlo ancora di più quando si appoggiava.

Il gioco era: fare certe cose, ma come se non le avessimo fatte per niente.

A farla breve, la mano la misi dove lei si aspettava di trovare il mio coso.

Si spostò un pochino in avanti. Non trovò il cazzo che l’aspettava, ma la mia mano. Dentro di me facevo calcoli di misure e distanze, fanno ridere queste cose, forse!

Credo che ci presi abbastanza bene, perché colsi abbastanza vicino al clitoride. Me ne accorsi perché lei sussultò un pochino. Non si ritrasse però, perché era così eccitata.

Cominciai ad insistere sul collo. Lei mi abbracciò intorno con le braccia. Mi sentivo le tette addosso. Pareva una botta di allucinogeni. Prendemmo a baciarci.

Con l’unghia del pollice scorrevo sui suoi jeans, sulla fica, da sopra a sotto, e viceversa, cercando di creare una leggera vibrazione che la faceva eccitare ancora di più.

Era quel raschiare sui pantaloni che la eccitava, e io lo sapevo.

Capii che eravamo al limite quando sentii la sua mano che spingeva la mia sul suo buchetto.

A fatica ci dovemmo separare perché qualcuno poteva sorprenderci o comunque cercarci.

Ci vergognavamo tutti e due di guardarci, ma eravamo pazzi, come ubriachi delle gioie che ci eravamo date e di quelle che ci volevamo ancora regalare. Era come un calore, che ci travolgeva, una passione che ci aveva preso. Volevamo tirarci indietro, ma ci guardavamo e ci dicevamo che saremmo andati fino in fondo. Quel nostro guardarci, quel nostro desiderarci, non ci bastava più ormai. Eravamo l’uno dell’altro senza freni. Mi sentivo le labbra calda di lei su di me, il suo sapore sulle mie labbra. Avevo addosso una specie di tremore, come quando ti capita un'esperienza da pazzi.

Ci dicemmo che quella notte ci dovevamo vedere. C’eravamo detti, “per parlare”, entrambi sapevamo che avevamo addosso una voglia matta di fare l’amore. Ci nascondevamo le cose, ma ce le dicevamo chiaramente.

La sera, tirammo il più possibile, ma in genere si andava al letto molto presto perché gli orari erano abbastanza ferrei.

Eravamo tutti nelle nostre cellette. Lei chiese, come c’eravamo detti già, al padre superiore, visto che comunque lei non stava con noi il giorno di poter rimanere ancora per aggiustare la cucina. Non ci furono problemi.

Da parte mia, corsi subito in camera, accostai la porta, ma non serrai il chiavistello. Spensi la luce, ed attesi che finisse il via vai nei bagni, che tutte le luci si spegnessero nelle stanze, e che ogni abitante del convento fosse nel suo letto.

Le porte erano alte un paio di centimetri da terra ed erano tavoloni, non porte, quindi ti potevano sentire benissimo.

Dovetti aspettare ancora un po’.

Uscii fuori, nel buio del corridoio, e accostai la porta dietro di me.

Era il buio totale, ovunque. Le celle erano sistemate sui due lati del corridoio che da una parte era chiuso. Dall’altra in fondo c’era l’uscita. Lì c’era la stanza del superiore, che stava con le orecchie alzate sveglio fino a tarda notte nei suoi studi, sensibile ad ogni tremore.

Ci misi un eternità per attraversare tutto il corridoio. Scarpe in mano, scivolavo solo con i calzini, a tentoni, nel buio totale. Solo uno starnuto poteva tradirmi. Quando fui davanti alla stanza del superiore, avevo il cuore a mille.

“Se mi becca ora sono fottuto” dicevo tra me e me.

Non si sentiva un solo fruscio, solo qualcuno che dormiva. A tentoni, scesi la scala di pietra che sbucava su un lato della cucina. Mia unica guida la lucetta rossa dell’interruttore della luce scale, in fondo.

Praticamente in preda a mille sentimenti, agitazioni, eccitazioni, mi feci quella discesa.

Quando arrivai al piano di sotto, lei era lì che stava veramente mettendo in ordine la cucina. Me la guardai prima sulla porta, non mi aveva sentito. La abbracciai da dietro, mentre si accorgeva che andavo da lei. Subito fu un baciarci a fior di pelle.

Parlavamo a voce bassa. Quel solo bisbigliare, bastava ad eccitarci, quella situazione, così pericolosa era l’estrema punta di una passione che ci stava travolgendo.

Andammo poi, oltre il salone dove si mangiava, ci chiudemmo alle spalle una porta. Poi ci trovammo in una stanza attigua, dove stava un ripostiglio. Un grosso tavolo appoggiato al muro, armadi strapieni di coperte e naftalina, pentole, libri, sedie ammucchiate, le lampade dei comodini mezze arruginite, reti del letto, stoviglie, di tutto di più. Accendemmo la luce.

Avevamo paura di essere scoperti, la porta era a vetri e da fuori si vedeva. Attaccai una lampada del comodino alla presa e ci gettammo sul pavimento sotto il tavolo, ma la luce era comunque forte.

Lei disse che era freddo.

“Cazzo” pensai nuovamente “qui va a finire che non si fa nulla”.

Presi le coperte, e le misi sotto di noi. Quel freddo pavimento ora diventava caldo, morbido addirittura.

Qui mi riconosco una trovata geniale. Misi tutt’intorno al tavolino le altre coperte. Fino a toccare per terra. E' una mia tecnica sviluppata negli anni, davvero consigliata. E si creò come una piccola stanzetta con la lampadina dentro. Cominciò addirittura a fare un po’ caldo.

Una cosa è sicura, giusto per fare una battuta: eravamo ricoperti tutti da queste cacchio di coperte marroni che erano divenute una ossessione, tipo in certi racconti di Ionesco, per chi li conosce, o qualche suggestione alla Hitchcok.

Parlammo tutto il tempo, come matti, un po’ ci tenevamo stretti, un po’ parlavamo. Era un continuo toccarsi. Spogliarsi lentamente, sempre con maggior foga.

Il mio dolce amore, si abbandonava fantasticamente.

Era difficile stare seduti per via che ti sbatteva la testa sul fondo del tavolo. E si stava l’uno di fianco all’altro. La luce della lampadina la misi dietro un risvolto della coperta. Legammo la lingua, l’uno con l’altra. Le mani si muovevano su le strade che tracciava la nostra fantasia. La lingua tracciava sui nostri corpi le vie più brevi per darsi il piacere.

La strinsi con la schiena appoggiata su di me, circondai i suoi capezzoli di carezze e mi feci aiutare dalle sue mani. Poi tenendola ferma sul collo giunsi tra le sue gambe e finalmente cominciò a mugolare di brutto

Si ruppe un po’ la timidezza. Si scatenò un senso di perversione quasi inaspettato. Mentre ci baciavamo le dita scorrevano tra la sue coscie, sul suo succo profumato e oleoso.

Anch’io volevo la mia parte.

Le dovetti spingere un po’ la testa per darle coraggio. Poi continuò da sola. Forse senza tanta bravura, ma certo con un fascino senza limiti. Le tenevo la testa. Poi gliela alzavo, glielo toglievo dalle labbra e le dicevo che era bellissima. Lei mi guardava soltanto. Poi , tenendolo in mano glielo respingevo dentro, di lato.

Me la guardavo tutta, appoggiata su di me e accovacciata sulla sua gamba. I capelli di lato, per nascondermi quello spettacolo.

Divino cazzo.

Era eccitatissima. Spensi la luce.

Ci possedemmo a vicenda, lentamente, a colpi ritmati, gustando tutto, a fondo. Ci parlavamo bisbigliando, commentando quasi ogni movimento.

Non avevamo il coraggio di allontanare il nostro viso, l’uno dall’altro, anche se era buio.

Lei si girò da sola, si mise in ginocchio con le gambe molto aperte, le braccia un po' allungate in avanti. Rimanemmo a lungo in quella posizione.

Mi chiedeva di venire, ma era bello tirare il più possibile. Quando fu sopra di me, (tra varie testate) era irrefrenabile, e dovetti stringerle la bocca col palmo della mano, per non far sentire il mugolio dell’orgasmo che la stava circondando. Bella tesa, sudata, scatenata a tratti.

Io non volli che continuasse.

Riaccendemmo la luce. Come si diceva in un opera che ora non mi ricordo, era una rosa sbocciata, e il suo viso era adesso d’un candore celestiale. Le strinsi la testa col braccio e mi toccai davanti a lei. Lei diceva che non l'aveva mai visto fare così, e che così da vicino. Questo credo eccitasse entrambi. Le avvicinai un po’ il viso quando venni. Non riuscivo a chiederle di prenderlo sul viso. Quando le arrivò qualche goccia che non si aspettava tremò un po’, ma poi rimase come estasiata. Era un ghiaccio da rompere quello.

Quando la guardai era ancora eccitata. Tornammo a baciarci a toccarci. Quando riuscii ad andarle sopra, cominciai a baciarla con più furia, fin sul ventre. Lei capì che volevo leccarla. Mi strinse la testa con le mani, per impedirmi di scendere. E mi tirava verso l'alto., ma senza troppa convinzione. Figurarsi se mi fermavo.

Dovetti accorciare i tempi di discesa, e prenderle subito il clitoride tra le labbra. Si sciolse subito, com’è naturale. E cominciò essa stessa ad aprire le gambe. Con l’aiuto delle mie dita dentro di se, venne come non mai, dico, come non mai cazzo!

Se poteste immaginare quanto fosse graziosa, un po’ inesperta, ma calda, pronta…Bisognava cacciarglielo quello che voleva.

Chiuse le gambe subito, quando venne, come si vergognasse, per tenermi abbracciato.

E dico, quell’abbraccio cosa mai poteva sostituirlo? Cosa?

Le sue labbra diedero pace ai miei sensi. Operava con più disinvoltura adesso, con più spigliatezza, ma era una cosa fantastica. Ragazzi, cazzo e dico cazzo!

Quanto tempo rimanemmo così a guardarci? Non lo so. In quel tempo che non era più tempo, in quell’atmosfera che era mondo in un mondo dove vivevano tutti gli altri esseri umani. Noi che per quel tempo, c’eravamo fatto il nostro mondo e ce l’eravamo goduto fino alla fine.

Per un momento se ne era andata ogni più piccola sbavatura di QUESTO mondo. Quello stare l'uno con l'altro, liberamente, senza vincoli, in un intesa che non voleva finire mai, avevano aperto davvero le porte a quell'angolo d'universo ove tutte le creature possono davvero toccare la felicità.

Il giorno dopo, solo io e lei avevamo il naso chiuso! OOppppSSSS!!!

Un saluto a tutta la comunità. A presto ragazzi, ciao!

rico819@yahoo.it



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