i racconti erotici di desiderya |
Il muro |
Di giorno. Mentre la città pulsa. Il sole ne scalda i muri grigi. E un dannato spicchio di cielo blu fa capolino dietro le guglie. Aveva le idee precise anche sul muro. Ne voleva uno antico. Trasudante storia e amori. Uno dalle parti del conservatorio. Uno della vecchia brera…Un muro che parlasse. Raccontasse dei corpi, che vi si erano poggiati contro. Degli amori, che si erano consumati in fretta alla sua ombra. Di lacrime e risate. Di umori e sapori. Un muro pieno di tracce. Un muro vivo. Come erano loro. Insieme.
Contro un muro così doveva sbatterla. Si aveva capito bene sbattere. Lo sapeva che lei non usava mai a caso le parole. E questa era quella giusta. Sbattere. Voleva sentire l’urto. Il suo corpo caldo, che assorbiva il freddo umido dei mattoni. L’odore di intonaco e piscio di cane. L’odore di vita della città. Della vita che si era consuma lì. Oltre quelle pareti. Dietro quelle finestre. Su quei balconi di molato ferro battuto. Doveva sbatterla. Il peso del corpo di lui che la schiacciava. Il suo fiato che le arrivava in faccia. Il freddo, che la penetrava. Sciogliendo brividi sulla sua pelle. Voleva sentirlo tremare. Non ci doveva essere controllo. Pensiero. Coscienza. La doveva sbattere. Coprire col suo corpo e riempire del suo sperma. Lì contro quel muro. Ne era capace. Lo sapeva. Non si sbagliava sugli uomini. Lei. Gli sarebbe piaciuto sbatterla. Avrebbe sorriso nel farlo. E lei avrebbe spinto il culo contro il suo bacino. Per sentirlo affondare. Avrebbe allargato le gambe e contratto la fica. Gli avrebbe succhiato il cazzo. Così. Mentre le artigliava i fianchi. Mentre l’aria, finalmente gelata, di questo pazzo inverno penetrava sotto la sua gonna. Sollevata. Lambiva il calore rovente sopra il bordo di pizzo delle calze. Avrebbe colato. Sarebbero usciti solo gemiti mescolati ad insulti dalle sue labbra. Un sibilo. E quella parola finalmente. L’aveva attesa. Lui l’avrebbe urlata con rabbia. Appassionata rabbia. Mentre l’avrebbe incalzata di colpi. Lei avrebbe sorriso nel sentirla. Le sue unghie avrebbero graffiato il muro. Quella donna era diventata un’ossessione. Non sapeva nemmeno lui come. Lentamente. Inesorabilmente. Lei gli aveva intossicato l’anima. E ora. Eccolo lì. In pieno giorno. Con la mente vuota. O meglio piena solo della voglia di lei. Non avrebbe voluto essere lì. Non avrebbe voluto sentirsi così. Era furioso. Con se stesso. Con lei. E affondava nel morbido calore di quelle cosce con ritmica violenza. Si era scoperto a sibilarle con la voce spezzata dalla passione quella parola nell’orecchio. L’aveva sentita sorridere. E l’aveva odiata. Maledetta. Adorabile. Troia. Già non era da lui. Lui le coccolava le sue donne. Le faceva sentire delle regine. Le amava con passione. Ma era lui che controllava il gioco. La situazione. Dettava i tempi e i ritmi. Le guardava contorcersi in preda alla voglia che lui stesso aveva esasperato e poi le appagava. Lei no. Cazzo. Con lei era stato diverso da subito. E guarda dove era finito. Contro un muro di quella città, che lo aveva adottato. Con una donna che sua non sarebbe mai stata, ma dal cui odore non riusciva a staccarsi. Se lo sentiva addosso di notte. Mentre solo si rigirava nel suo letto. La odiava. L’adorava. Non lo sapeva. Se la sentiva dentro. Come nessuna prima. E temeva dopo. Eccola. Mugolava. Lui colpiva violento. Affondava senza rispetto e delicatezza. In preda solo alla voglia di possederla in qualche modo. Di piegarla. Di vedere lacrime e paura oltre la cortina della sua passione infinita. E lei mugolava. Come una gatta in calore. Come se lui la stesse accarezzando dolcemente. La voce di lei gli arrivava fievole coperta com’era dal traffico pulsante della città nell’ora di punta. Clacson, urla, frenate improvvise, bambini vocianti, signori distinti e signore eleganti. E loro lì. Contro quel muro. Lui dentro di lei. Lei che gli succhiava l’anima attraverso il cazzo. Ma tremava. Almeno un po’. Stavolta tremava. Non vedeva i suoi occhi. Non voleva vederli. Ma la sentiva. Era certo fossero lucidi. Di lacrime. Finalmente. Le avrebbe bevute quelle lacrime. Se ne sarebbe dissetato. Avrebbero lenito l’arsura che gli tormentava l’anima. Almeno per un po’. Leccava lento risalendo lungo l’arco della guancia di lei. Percorrendo a ritroso la traccia bagnata. Schiacciandola con tutto il corpo. Avvolgendola nel suo calore. Piangeva. Nemmeno se n’era accorta. Credeva di averle esaurite molto tempo prima le lacrime. Non era in se del resto. Ma era il prezzo che sapeva avrebbe pagato per quella follia. Lucida. Cosciente. Follia. In fondo aveva sempre saputo che non ci sarebbe stata scelta alla fine. Doveva spingerlo oltre. Oltre il suo desiderio. Oltre la razionalità. Oltre la coscienza. Oltre lei. Oltre se stesso. Soprattutto. Era l’unico modo che aveva. L’unica possibilità. In quel modo le avrebbe creduto. In quel modo avrebbe capito. E forse. Forse avrebbe perdonato se stesso. Per averla voluta. Lo sentiva affondare. Cattivo. Violento. Predatore. Il suo corpo si scioglieva di più ad ogni colpo. Il dolore cresceva di intensità. La sua fica piangeva lacrime di estasi. Ecco nella sua follia. Avrebbe voluto afferrarlo per i capelli e spingerlo tra le cosce. Farlo bere alla fonte. Lì. Contro quel muro. Bastardo. Si era accorta di ripeterlo come una litania. Una sorta di preghiera implorante. Inframmezzata da gemiti, quando lui affondava fino a farla sentire colma. Posseduta. Nulla dopo quel pomeriggio sarebbe stato come prima. Ma era ciò che voleva. La femmina predatrice in lei aveva ormai rotto ogni argine. Era inarrestabile. Impermeabile ad ogni ragionamento. Voleva il sangue. Quello di lui. E il suo. Mescolati. Per averlo avrebbe dovuto scatenare la belva in lui. Si proprio quella che ora affondava i denti nel suo collo, che artigliava i suoi fianchi. Mentre il suo cazzo cercava i confini del suo utero. Una lacrima le bagnò le labbra. Assaggiandola istintivamente si rese conto che gli argini dentro di lei erano davvero rotti. Quelli di lui si erano spezzati non appena l’aveva sbattuta contro quel muro. Tutta la tensione, la rabbia, l’impotenza, il dolore e la passione che turbinavano dentro di lui erano esplose. Non era più stato capace di pensare. Come lei aveva voluto. E come del resto era per lei stessa. Sentivano e basta. Le sensazioni sono innocenti. Limpide e cristalline anche quando rispondono ai nostri impulsi più oscuri. Lui sentiva la forza di lei piegarsi per accoglierlo. Lei sentiva il calore di lui bruciarla senza chiedere permesso. Finalmente. In entrambi il sollievo si era sciolto in lacrime. Si sbattevano. Contro quel muro. Avidi. Rapaci. Cullati dal battito impazzito del loro sangue nelle vene. Isolati dal desiderio. Ormai il culmine era vicino. I colpi di lui non le lasciavano requie. I reni le bruciavano e le cosce le tremavano per lo sforzo di trattenerlo dentro di se. Ancora. E ancora. Lui si spingeva sempre più dentro di lei. Sembrava volesse trapassarla. Le contrazioni dell’orgasmo la travolsero mentre il seme di lui la colmava. Non si accorsero di averlo detto. Dopo solo dopo. Mentre i respiri si calmavano. E la mente riprendeva coscienza della fredda eleganza del muro contro cui giacevano. Si sorrisero tra le lacrime. Ripetendolo. Ancora una volta. |