i racconti erotici di desiderya

Agata

Autore: In Barca
Giudizio: -
Letture: 427
Commenti: 0
Dimensione dei caratteri: [+] - [ - ]
Cambia lo sfondo


Era uno strano periodo della mia vita: quello delle fantasie accettate, delle curiosità fino ad allora espresse, dei desideri nuovi. Tutto questo però, anziché soddisfazione, mi dava incertezza: non sapevo, non riuscivo ad accettare la nuova Agata che si era fatta strada dentro di me.

Sentivo il bisogno di cambiare aria, e la cambiai, approfittando del fatto che mio fratello aveva affittato per Pasqua un appartamento in Puglia e ci avrebbe trascorso una breve vacanza con la famiglia. Me lo chiese lui, del resto, se volevo andare. E non era una cosa consueta che mi offrisse un’opportunità del genere; forse aveva avvertito il mio disagio, il mio cambiamento. Accettai.

Il viaggio fu lungo in maniera estenuante, noioso, fatto apposta per incupire i pensieri già poco limpidi che continuavano a sfrecciare per la mia testa. Ma avevo voglia di stare tranquilla e quella mi pareva l’occasione giusta: lontana dalla mia quotidianità e dalle persone che in qualche maniera sentivo assillare la mia volontà. Arrivammo a destinazione la sera, la casa era abbastanza isolata, sulla collina prospiciente il mare: un mare che sapeva di freddo e di sale, non ancora scaldato dal sole. Il tempo per scaricare i bagagli, preparare i letti poi via a dormire: un sonno leggero, turbato, ma anche insistente. Il corpo aveva bisogno di riposo; la mente, invece, resisteva. La mattina avevo le ossa rotte, la testa pesante e i pensieri confusi. Mi ero alzata per prima e non avevo proprio voglia di partecipare al risveglio della famiglia di mio fratello. Mi lavai e vestii in silenzio, lasciai un biglietto sulla tavola e me ne uscii, andando verso il mare, mentre il sole cominciava a scaldare. Erano le sette della mattina, ora solare. In giro non c'era anima viva.

Attraversai la statale e scesi verso la riva, percorrendo una stradina che si snodava tra gli alberi, in un’atmosfera magica. Arrivai alla spiaggia, apparentemente deserta, e iniziai a percorrerla camminando sulla battigia. Dopo un centinaio di metri vidi che non ero sola: c’era una ragazza, gonna lunga e larga e maglione, seduta sul limitare della spiaggia, appoggiata ad un albero. Aveva i capelli rossicci, ondulati, lunghi fin sotto le spalle, un bel viso, doveva essere giovane, almeno vent’anni meno di me. Guardava diritta davanti a sé, tenendosi le ginocchia con le mani. Le passai di fronte e le feci una specie di cenno di saluto, che parve distoglierla dal suo torpore. Infatti mi rispose con calore, con un “ciao” squillante e convinto, sorridendomi e facendomi un cenno con la mano.

Fu forse proprio quel cenno a spingermi a cambiare direzione, per dirigermi verso di lei. “Sono arrivata ieri sera è la prima volta che vengo qui. Bello questo posto”, dissi. Lei mi guardò in silenzio: “Sì, è molto bello, forse uno dei più belli qua attorno. Io vivo qui e mi piace venire in questa spiaggia, all’alba, a meditare”. “A meditare di che?”, chiesi sedendomi accanto a lei. “A dire il vero non lo so, ma a stare a casa mi annoio e comincio a lavorare alle 9, faccio la parrucchiera. Qui prendo aria fresca, sgombero la mente, penso a ieri, a oggi, a domani”. “Io invece sono qui per caso, mio fratello ha affittato una casa che sta più su, sulla collina, saranno 500 metri”. “Tuo fratello? Non sei sposata? O è una domanda indiscreta?”. “No, non è indiscreta: non mi sono mai sposata; forse ho perso l’occasione giusta, a suo tempo. Ma oggi – affermai con convinzione – sto bene come sto, da sola. A 43 anni mi sembrerebbe una follia la vita a due”. “Io invece mi sono sposata a 18 anni – replicò lei, senza che io le domandassi nulla – ma dopo poche settimane è diventato un inferno: ha cominciato a picchiarmi e a farmi di tutto. Ho dovuto anche andare in ospedale, guarda”. E mi indicò una cicatrice sulla tempia.

“E’ una bastonata. Mi hanno dovuto mettere quattro punti di sutura, mi ha fatto male, fuori e dentro. Quel gesto mi ha dato il coraggio per andarmene; prima ho chiamato i carabinieri, poi l’avvocato e mi sono separata. Ho deciso che mai più mi sposerò: l’amore è solo una nostra fantasia, poi la vita a due è un’altra cosa”. “E ora vivi sola?”, le chiesi. “No”, rispose, “ho provato a tornare dai miei ma non mi hanno voluta. Mia mamma diceva che quello era mio marito e dovevo tornare da lui e sopportarlo. Allora ho cambiato paese, ho trovato un’amica e assieme abbiamo aperto un negozio di parrucchiera. Adesso vivo con lei”.

Pensavo a quella strana storia, di una giovane donna già così vissuta e provata dall’esistenza. In fondo, se dovevo fare un confronto, io ero fortunata. La guardai negli occhi, mi sorrise. “Avresti bisogno di sistemarti i capelli”, mi disse, carezzandomi la testa. Aveva ragione: ero “scappata” di corsa, senza avvisare neppure me stessa. “Dov’è il tuo negozio?”, le chiesi. “In paese”, mi spiegò, “proprio all’inizio della strada che sta di fronte alla chiesa, dall’altra parte della piazza”. Non avevo neppure idea di quale paese fosse, ma non sarebbe stato difficile trovarla. “D’accordo, se riesco faccio un salto. Devo prenotarmi?”. “Sarebbe stato meglio, domani è Pasqua e siamo pieni, ma se vieni un posto te lo trovo, dico che sei mia cugina”. “Ok, a dopo allora”. “Ciao”, disse di nuovo lei, allungando la mano verso di me mentre mi rialzavo. “Mi ha fatto piacere parlare. Mi chiamo Anna”. “Io Agata”. E me ne tornai verso casa.

La famiglia si era alzata e stava facendo colazione. Mio fratello mi salutò: “Ehi nottambula, dove sei finita?”. “Non avevo sonno, ho fatto un giro, però ora che ci penso ho fame. A proposito, mi presteresti la macchina? Mi piacerebbe sistemarmi i capelli”. “Se vuoi andare in paese ti accompagno io, devo fare la spesa. Ma ti sembra il caso di andare da una parrucchiera locale? Mi pare un posto così “primitivo”. E poi non mi sembra affatto che tu ne abbia bisogno”. “Sono io che devo sentirmi in ordine, non tu. Mi porti?”. “D’accordo”. Intanto mia cognata, nel silenzio che contraddistingue la sua esistenza, mi versò del caffellatte. Feci colazione, ne avevo bisogno. Poi partii con mio fratello.

Il paese era a meno di 10 minuti, invisibile da dove eravamo noi, dietro la collina. Un paese non bello, trasandato, dagli intonaci cadenti, con tanta gente scolorita che affollava la piazza e i negozi, molte auto in circolazione. Di fianco alla chiesa c’era un parcheggio, evidentemente abusivo, ma ben custodito da una banda di ragazzini cui mio fratello consegnò fiducioso il proprio veicolo. Scendemmo, ci salutammo, io sapevo dove andare, lui no. E mi venne dietro, mentre io andavo diritta verso la mia meta. Arrivai subito davanti al negozio, le indicazioni di Anna erano state precisissime. “Be’, io sono arrivata, ci vediamo qui tra un’ora circa”, dissi aprendo la porta del salone. Mio fratello era allibito: lui non sapeva da che parte girarsi per comperare pane e companatico e in 10 secondi io avevo raggiunto il mio obiettivo. Non si trattenne “ma come facevi a sapere che era qui?”. Gli replicai decisa: “In ogni paese, anche da noi, il più importante negozio di parrucchiera è nella strada di fronte alla chiesa”. Non obiettò, non aveva argomenti. “Ok, a più tardi”, disse allontanandosi. Io entrai.

Non era un grande negozio, sapeva di vecchio, come tutto, del resto. Però era pulito. Tre o quattro signore aspettavano il loro turno sedute leggendo riviste femminili, mentre al di là di un paravento si udivano voci dialettali che sottolineavano i lavori in corso. “Ciao Anna”, dissi a voce abbastanza alta da farmi sentire. “Agata, cugina mia”, rispose a tono la voce della mattina. Anna fece capolino dal paravento, sorridendo sotto i suoi capelli rossi. Era minuta, più piccola di me, indossava un camice dello stesso colore del mare; i suoi occhi scuri ammiccavano. “Ti disturbo?”, chiesi. “Certo che no”, disse lei, e mi presentò al pubblico: “questa è mia cugina dritta, Agata. Sei qua in vacanza?” “Sì, mi fermo qualche giorno, ero solo passata a salutarti”. “Ma dai, fermati un po’, poi mi raccomando niente storie, stasera a cena da noi. A proposito, hai bisogno di una sistematina alla testa”. “Non importa”, risposi io con fare schivo, “c’è già tanta gente che aspetta”. “Signore”, chiese alle clienti, “vi dispiace se faccio mia cugina? Non ci vediamo da due anni e a voi non faccio perdere che pochi minuti”. “Ma no, Anna, anzi, fai pure”, fu il coro unanime. “Grazie, vorrà dire che vi faccio lo sconto, vero Carla?”. “Va bene, lo tratterrò dalla tua parte”, rispose una voce dorata dall’altra parte del paravento.

Anna mi fece passare avanti e accomodare davanti ad un lavatoio. Una cliente stava asciugandosi i capelli, un’altra se li stava tingendo, una terza era tra le mani di Carla, che le dava una spuntatina. Carla era l’opposto di Anna, alta almeno 1,70, mora, carnagione olivastra, prorompenza mediterranea, sembrava l’emblema della femminilità latina. “Ciao”, mi salutò con un lampo dei suoi occhi neri, e proseguì ciò che stava facendo. Anna aprì l’acqua della doccetta, ne valutò la temperatura e iniziò a bagnarmi i capelli, in silenzio; poi me li lavò. Le sue mani mi massaggiavano leggere le tempie e il cuoio capelluto, era rilassante, avevo chiuso gli occhi per assaporare quelle sensazioni delicate. “Come sta mammà”, mi chiese. “Insomma…”, risposi. Poi lei parlò del più e del meno, riferendosi alla “nostra” famiglia e a come era contenta che fossi là e a che buona cena avrebbe preparato. E intanto massaggiava, a fondo, sopra le orecchie, dietro, la nuca, ogni parte del capo, quasi con voluttà. Mi eccitai. E lei lo capì e il suo tocco divenne ancora più delicato, ritmato. Risciacquo, seconda passata, altro massaggio, con ancora più schiuma. “Vedrai, ti faccio un bel lavoro. Poi me lo rendi alla prima occasione”, affermò. Io avevo sempre gli occhi chiusi, e mi sentivo davvero bene.

“Finito”, disse. Peccato, pensai. “Io vado avanti con la tintura, ti faccio tagliare da Carla”. E cedette il posto alla socia. Che era davvero veloce e professionale. “Hai qualche preferenza o vuoi che faccia io?”, mi chiese. “Fai tu”, sussurrai, e la lasciai fare. Fu premurosa, affettuosa, rapida, precisa. E intanto mi chiedeva cosa preferivo per la cena della sera. “Sai”, puntualizzò, “Anna è la specialista nei primi, io nei secondi. Sarà una bella serata per tutti, ti garantisco che ti divertirai”. E così dicendo mi prese la testa, appoggiandola sul suo seno, grande e sodo, per rifilarmi la frangia. “Ecco fatto, un’asciugata e abbiamo finito. A proposito, abitiamo qua sopra, suoni alla porta a fianco, c’è scritto Leccisi. Ti aspettiamo verso le otto”. Pochi minuti ed ero pronta, Anna venne a salutare sua “cugina”, ci baciammo ed abbracciammo, in attesa di rivederci la sera.

Uscii, andai all’automobile, ma dovetti aspettare un bel po’ prima di rivedere mio fratello, carico di sacchi e sacchetti, neanche dovessimo fermarci un mese. “Ehi, lo sai che sei proprio carina?”, mi disse appena mi vide. A dire la verità non ci avevo fatto troppo caso, ma se lo diceva lui che mi ha sempre paragonato ad un cocker era segno che Anna e Carla mi avevano proprio fatto un bel lavoretto. Sorrisi: “Lo vedi, tu che non ti fidavi dei professionisti di un posto perduto come questo? E invece è proprio qui che si possono trovare le sorprese più piacevoli”. Ripartimmo verso casa. “Senti Piero, mi servirebbe l’auto questa sera”. “E perché mai, non ceni con noi?”. No, ho voglia di cenare da sola”. “Non me la racconti giusta, in ogni caso va bene, bada a non fare incidenti”. Arrivammo a casa, in tempo per finire di sistemare e preparare il pranzo. Poi la pennichella. Non per me, però, che andai di nuovo fino alla spiaggia, già un po’ affollata di qualche timido bagnante non si sa se locale o forestiero. La spiaggia era chiusa su entrambi i lati dalla scogliera e non si poteva proseguire. Tornai indietro e mi aggirai per il bosco. Ero inquieta, annoiata. Forse venirmene via non era stata una scelta felicissima. Ho le mie abitudini consolidate, ma qui era tutto diverso, non sapevo cosa fare, da chi andare, con chi parlare. Rientrai a casa alle sette: la sacra famiglia era tutta là, sotto il patio, seduta sulle sedie di casa portate all’esterno.

“Sei sicura di non volerti fermare a cena?”, insisté mia cognata con la minore convinzione possibile. “No, non voglio essere di peso e poi sono in cerca di avventure”. “Avventure tu? Qui? Credo che dovrai proprio cercarle bene per trovarle”, sentenziò mio fratello, porgendomi le chiavi. Raggiunsi il paese in pochi minuti, ero in anticipo sull’orario previsto. Parcheggiai al “solito” posto, andai verso il negozio di parrucchiera. Era già chiusa. Strano, la piazza era affollatissima, ma forse a quell’ora si doveva essere già pronte, sia perché il sabato sera invitava la gente a ritrovarsi, sia per le ormai prossime funzioni pasquali. Avevo una strana sensazione: nessuno pareva fare caso a me, ma nello stesso tempo mi sentivo osservata. Dev’essere il clima dei piccoli paesi, pensai, dove tutti paiono badare ai fatti propri mentre si fanno quelli degli altri.

Suonai allora al campanello “Leccisi”. La porta si aprì immediatamente: “Sali, Agata, siamo di sopra”. La porta dava direttamente ad una scala che girava dietro il muro. Salii, sentendo un buon odore di pulito, di frutta fresca e di pesce. “Siediti, accomodati, stiamo finendo di preparare, abbiamo chiuso alle 18”. Una pentola d’acqua a bollire, una terrina di orecchiette, sugo di pomodoro, aglio dall’aria freschissima, peperoncino, due rombi perfetti, invitanti, persino profumati. L’appartamento era semplice ma molto bello, ordinato, arredato con gusto. Mi ricordava il mio. Le due ragazze si affrettarono: Anna gettò le orecchiette nell’acqua bollente e si diede a preparare il sugo, mentre Carla, abilissima, squamava il pesce e lo preparava così com’era dentro due teglie che poi mise in forno.

“Sai”, disse Carla, “sono contenta che tu abbia incontrato Anna. Noi qua viviamo un po’ per conto nostro, il paese è piccolo, chiuso, ci sopporta, ci accetta, ma restiamo delle estranee. Però apprezzano il nostro lavoro e qui prima c’era solo una vecchia megera che faceva a tempo perso la parrucchiera e che è pure morta non si sa come qualche mese fa: l’hanno trovata stecchita in casa”. Anna mescolava la pasta, poi venne a sedersi di fronte a me, accanto a Carla, cingendole la spalla con un braccio. Era un gesto molto fraterno, cameratesco ed affettuoso ad un tempo. “Sì, è stato un incontro fortunato, lo penso anch’io”, risposi, poi proseguii: “e tu Carla come hai conosciuto Anna?”. “Ci siamo conosciute all’ospedale, quando dovette medicarsi. Anch’io ero lì per delle medicazioni. Abbiamo cominciato a parlare, ci siamo capite, avevamo problemi analoghi e io potevo ospitarla, mentre non era proprio il caso che se ne tornasse a casa. Da allora stiamo assieme”, disse girando la testa verso l’amica e guardandola con dolcezza. Anna rispose carezzandole il collo e spingendo la testa verso di lei. Mentre Carla continuava a scrutarmi con interesse.

Forse erano più che amiche, lo avevo pensato già quel pomeriggio, ma in fondo erano affari loro. Mentre meditavo sulla loro situazione, però, sentivo che l’atmosfera stava cambiando, stavo entrando in sintonia con le due ragazze, non le sentivo come delle conoscenze occasionali. Il suono di un campanello. “E’ pronto”, fece Anna, alzandosi per andare a scolare la pasta. Carla intanto diede uno sguardo al forno. Ci sedemmo a tavola. Da chissà dove uscì un bottiglione di vino di un giallo intenso: Anna riempì i bicchieri di tutte e la cena iniziò, nel più banale dei modi. Le due ragazze però cercavano di comunicarmi qualcosa, le loro manifestazioni d’affetto, i riferimenti al loro vivere insieme erano sempre più diretti e sempre meno casuali, come anche certi discorsi sugli uomini, razza dannata e non molto utile.

La cena finì e io mi sentivo un po’ brilla. Carla sparecchiò, mentre Anna venne a sedersi accanto a me, carezzandomi i capelli come quella mattina. “Sono proprio belli, sai”, disse prendendomi il viso tra le mani. Mani leggere, nervose, fugaci. Mi guardò intensamente, penetrandomi fino all’anima. Poi avvicino il suo volto al mio sfiorandomi le labbra con le sue. Sentii una scossa, non reagii. Lei lo rifece, più decisa. Sentivo che era una cosa innaturale, ma non la trovavo brutta. Lei si ritrasse di nuovo e io la guardai con aria interrogativa, cercando di orientarmi in una situazione della quale non sapevo più essere padrona. Anna si riavvicinò a me nuovamente, “sei pulita dentro”, mi disse, e appoggiò ancora le sue labbra sulle mie. Di nuovo non reagii, nel senso che lasciai che sgusciasse dentro di me. Aveva una lingua piccina, dal gusto di pesce e di peperoncino, che si muoveva lentamente a frugare tutta la mia bocca, avviluppandosi alla mia lingua, che se ne stava passiva, ma piacevolmente solleticata. Era calda, la sua saliva aveva un gusto diverso da quello maschile, molto diverso, ma piacevole.

Assaporai quel bacio ad occhi aperti, mentre Anna chiudeva i suoi per gustarmi meglio. Questione di pochi secondi e Carla fu dietro di me, a sostenere il mio capo coi suoi grossi seni morbidi e duri ad un tempo, afferrandomi le spalle e scendendo sulle mie piccole tette. Ero circondata, ma non dissi di no. Anzi stetti al gioco, perché mi piaceva quello che stava accadendo e a pensarci bene non saprei dire se non l’avessi io stessa previsto un simile esito. Cercai io la lingua di Anna, che si fece più audace quando si accorse che rispondevo alle sue sollecitazioni, mentre le dita di Carla comprimevano ritmicamente i miei capezzoli, aprendo la strada ad un nuovo godimento. Sì, certo, qualche fantasia lesbo l’avevo anche avuta, ma tra il sogno e la realtà… E invece il sogno si avverava e non lo trovavo per nulla perverso, anzi lo sentivo normale, volevo gustarmelo. Mi staccai da Anna e cercai di guardare Carla, che capì e mi baciò a sua volta. La sua lingua era più carnosa e robusta, del tutto diversa da quella dell’amica. Quando entrò nella mia bocca la riempì tutta, poi risucchiò la mia, leccandola come fosse un gelato. Anna intanto aveva iniziato a spogliarsi. Nessuna delle tre diceva più nulla, ma le nostre mani avevano cominciato a frugare i nostri corpi.

Anna si alzò: “vieni”, e mi prese per una mano trascinandomi nella camera da letto, mentre Maria mi prendeva l’altra mano e si faceva trascinare da me. “Aspetta”, mi disse fermandosi. E iniziò a spogliarmi, con calma e gentilezza, sempre guardandomi negli occhi, mentre Carla finì di spogliare lei. Quando mi scoprì il seno lo volle succhiare e lo fece con una dolcezza infinita, mordicchiandomi poi, mentre passava ai miei slip che fece sparire in un attimo. I miei 43 anni li portavo benissimo, ma lei i suoi 23 li portava in maniera adolescenziale: pareva una ragazzina. “Aiutami”, chiese, rivolgendo a Carla le sue attenzioni. Carla era più grande di noi ed era quella vestita in maniera più tradizionale. Anna le tolse la camicetta e poi chiese a me di toglierle il reggiseno, che si apriva davanti. Quando lo sgancia, due grosse poppe dure e invitanti balzarono verso di me e trovai ovvio succhiarne le punte, sentendo i suoi capezzoli diventare di marmo e il suo corpo inarcarsi, mentre un lungo gemito sottolineava il piacere di quella mia azione. Mentre la succhiavo, Anna le tolse gli ultimi indumenti.

Eravamo nude, tutte e tre, tre donne che cercavano il piacere nella dolcezza, tre corpi con caratteristiche così diverse. Carla era molto pelosa, davanti e anche sul sedere, tondo, grande, con qualche accenno di cellulite, eppure sodo. Sapeva di avere un bel culo e quando andò a sdraiarsi sul letto rimase bocconi. “Hai visto che bel culo che ha?”, mi domandò Anna. “Sì”, annuii, “è proprio ben fatto”. “Le piace…” disse, senza aggiungere altro e quasi per spiegarsi, diede un forte scapaccione sui glutei dell’amica. Aveva mani piccole e delicate, Anna, ma quel gesto era stato repentino, violento. Ma Carla non reagì come mi sarei aspettata. Anzi chinò il capo affondando la testa nel cuscino, quasi attendesse ben altro. E infatti Anna si scatenò, la sculacciò ripetutamente, con voluttà, non certo con dolcezza, e ad ogni colpo il culo di Carla arrossiva sempre più mostrando i segni della piccola mano che la percuoteva. Ma Carla non dava alcun segno di sofferenza, anzi il suo corpo formoso, così grande di fronte a noi, si torceva quasi in uno spasimo di piacere.

“Prova tu”, mi chiese Anna, “non preoccuparti, le piace, è la sua perversione, senti”. E così dicendo mi prese la mano, portandola tra le cosce dell’amica: era viscida, il sesso aperto, bagnata come anch’io poche volte ero stata. Ero allibita, arrossii. “Dai, lo vuole, falla godere”. Con la stessa mano umida del suo piacere cominciai a schiaffeggiarle le natiche, dapprima piano, poi prendendoci gusto. Era bello sentire i palmi della mia mano affondare in quella carne morbida e sempre più calda. Carla intanto, aveva raggiunto con una mano il sesso dell’amica e la masturbava piano piano. “Aspetta”, disse ancora Anna, fermando quel mio nuovo piacere. “Guarda cosa anche le piace”. Le afferrò le natiche, scostandole. La fessura del sedere era fitta di peli, che nascondevano un buchino scuro. Anna si chinò su di esso, con la lingua protesa, a leccarlo. Poi prese la mia testa, portandola verso l’amica, voleva che la imitassi e la imitai: aveva un gusto di buono e quel buchino grinzoso e peloso non mi faceva affatto schifo come avevo pensato solo poco prima. Sentivo che la mia lingua aveva su Carla un effetto gradito e sintonizzammo i nostri movimenti, ciascuna per godere al meglio di quelle sensazioni.

Mentre ero così, inginocchiata, con il viso premuto contro quel sedere favoloso, sentii delle piccole dita affusolate accarezzarmi rapide la schiena, passare alle natiche e trovare la mia fighetta, scomparendoci dentro. Non ero mai stata penetrata da una donna e mai da dita così abili, e delicate, sapienti nel massaggio che stavano facendo alla mia vagina. Mi scoppiò il cervello in un orgasmo repentino “Oooooooohhhh”, sospirai, sciogliendomi del tutto. Tirai su il viso, guardai Anna, che tolse le mani dal mio sesso, afferrò le mie, mi portò verso di sé. La baciai e fu un bacio voluttuoso, intenso, eterno, mentre i nostri seni si strofinavano tra di loro e Carla si girava mettendosi sotto di me, per leccarmi a sua volta, passando quella grossa lingua rasposa ora attorno alle grandi labbra, ora in mezzo, ora sulla clitoride. Venni di nuovo.

Ero fuggita perché volevo scoprire me stessa, mi ritrovavo lesbica e la cosa non mi dispiaceva per niente. “Grazie”, mormorai, abbracciando le due ragazze e abbandonandomi definitivamente alle loro carezze.



giudica questo racconto

Attenzione, solo gli utenti registrati su Desiderya.it possono esprimere giudizi sui racconti

Per registrarti adesso CLICCA QUI

Se sei un utente registrato devi autenticarti sul sito: CLICCA QUI



Webcam Dal Vivo!