i racconti erotici di desiderya

Maristella

Autore: Tom
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Maristella

Questa storia è un po’ diversa dalle solite che scrivo. Inizialmente era partita con l’essere un racconto sm, poi la trama ha iniziato ad andare alla deriva per conto suo. Spero che vi piacerà comunque. Come sempre resto in attesa di commenti, critiche e suggerimenti.

Di tom tom2075@hotmail.it



Conobbi Maristella (o Mariastella, come fu erroneamente registrata dalla guardia medica la notte in cui fu ricoverata) un venerdì sera, poco dopo l’ora di cena. Mi trovavo all’ospedale per effettuare il consueto giro delle viste. Era l’ultimo della giornata, poi me ne sarei andato a dormire a casa mia. Per altre dodici ore niente più malati, vomito, padelle e degenti in crisi d’astinenza.

Maristella alloggiava nell’ultima sala del corridoio. La sua camera contava due letti, uno era vuoto, l’altro lo occupava lei, rannicchiata sotto le coperte e in un angolo del materasso, quasi provasse vergogna a trovarsi lì, in quel momento e in quello stato. E’ una cosa che capita frequentemente, più frequentemente di quanto si creda; molti ricoverati pensano che la loro malattia sia una sorta di macchia su quella fedina penale che è la vita. Prendono la degenza come un’umiliazione, un loro fallimento personale. Come se una cardiopatia, un cancro o il diabete fossero un crimine da scontare. Cosa angustiasse la ragazza, poi, neppure lo sapevo. Si trovava nel reparto di chirurgia, convalescente per una banale operazione alla mano. Lo lessi nella cartella clinica.

“Buonasera” salutai.

Maristella sollevò impercettibilmente il suo sguardo e mi fissò in silenzio. Pareva un coniglietto spaventato di fronte alla faina di turno. Avrei voluto dirle che non mordevo.

“Lussazione delle falangi…a tre dita” dissi “Adesso sta meglio?”

La ragazza annuì.

Sotto l’impersonale luce al neon dell’ospedale stentai a riconoscerne la bellezza. Maristella mi sembrò una ragazza come tante altre. Non brutta, ma neppure bellissima. Si sarebbe potuta facilmente confondere con la massa.

“Come te le sei procurate?” chiesi.

Lei scosse la testa.

“Le lussazioni, intendo” ripetei “Come te le sei procurate?”

“Non ha importanza” accennò lei, timidamente.

“Beh, potrebbe averne…tu dimmelo, poi lascia giudicare a me. Sono o non sono un dottore?”

“Sono caduta dalle scale”

“Ah…lussazioni insolite, per una caduta dalle scale”

“E’ andata così” disse lei. Si voltò dall’altro lato del letto e rimboccò le coperte fin quasi al naso. Non aveva voglia di parlarne. Per nulla.

“E’ venuto qualcuno a trovarti?” chiesi.

Scosse il capo. No, nessuna visita per Maristella.

“Capisco” conclusi “Ti lascio riposare, allora. Buona sera”

Me ne andai in silenzio, dopo aver riposto la cartella clinica nell’apposita cartelletta ai piedi del letto.



La rividi solo due giorni dopo, poiché il sabato era il mio giorno libero. Mentre entravo nella stanza di Maristella vidi un poliziotto in divisa ed un uomo in borghese appoggiati al muro, proprio di fronte alla porta della stanza. Parlottavano a bassa voce come se non avessero voluto farsi udire dalla ragazza. Parlottavano di un “picchiatore”.

Mi avvicinai per chiedere spiegazioni. In fondo quello era un ospedale ed io un dottore. Nessuno mi aveva avvertito di una visita programmata delle forze dell’ordine.

“C’è qualche problema?” domandai.

“Lei è un dottore?” mi domandò l’uomo in borghese. Avrei compreso poco dopo che si trattava di un ispettore di polizia.

“Sì. Sono un chirurgo. Conoscete la ragazza della 16?”

“Sì”

“Mmmm…dovrei essere messo al corrente di qualcosa?”

Già mi figuravo che l’apparentemente innocua Maristella fosse una specie di criminale incallita, roba da BR o simile…

“Dovevamo fare solo alcune domande alla ragazza” disse l’ispettore. Poi, senza girarci troppo intorno “Quei lividi che ha addosso…crediamo che non se li sia procurati cadendo dalle scale”

“Ah, no?”

“No, lei è un dottore…avrà già visto donne vittime di violenze domestiche”

“A dire il vero no” risposi. Io mi occupo di aprire toraci a furia di bisturi. Smanetto negli organi interni come un cieco che ha perduto una monetina sul marciapiede.

“E’ una brutta storia” intervenne l’altro poliziotto.

“E’ stato il marito?” chiesi.

“Chi altri?” disse l’ispettore, come se quella fosse la cosa più ovvia del mondo.

“L’avete arrestato?” chiesi ancora.

“Senza una denuncia da parte di lei non possiamo fare nulla”

“E lei non apre bocca…” disse l’altro.

“Capisco” dissi “Le avete già parlato?”

“Sì”

“Posso vedere se con me sarà più loquace” conclusi.

“In questo caso buona fortuna” sbuffò l’ispettore “Quella lì ha paura della sua stessa ombra”



“Me ne vuoi parlare? Qualunque cosa tu mi dica, se non vuoi, non uscirà da qui”

Eravamo soli, io e lei. Di fuori, nel corridoio, il Venturini vomitava l’anima davanti alla statua della Madonna. Le infermiere non ne potevano più di raccattare i suoi succhi gastrici. Ormai il loro odore aveva impregnato quel budello dell’ospedale con un tanfo insopportabile. Povero Venturini, rincoglionito d’un ultranovantenne con un Parkinson talmente grave che il suo tremolio lo registrava pure l’osservatorio sismologico dell’Università!

Maristella non diceva sì e non diceva no. Aveva un disperato bisogno di sfogarsi con qualcuno e un’altrettanto grande paura che la costringeva a non farlo. La contraddizione parlava per lei; la sua bocca diceva che non sapeva nulla di mariti violenti, botte e minacce, i suoi occhi pregavano affinché qualcuno condividesse con lei il macigno che fino a quel momento aveva portato in totale solitudine.

Devo dire di non essere un gran conoscitore della psiche umana, in special modo della psiche femminile…ed in special modo ancora della psiche femminile di donne che hanno subito maltrattamenti. Com’è possibile che una ragazza come Maristella si omologhi al ruolo di vittima designata nei confronti di qualcuno che, visto come la mena, sicuramente non la ama? Cosa la trattiene dal denunciarlo? Dal fuggire da quella casa? Dal chiamare un amico, un parente in grado di prendere le sue parti?

Perché intestardirsi ad alloggiare all’inferno, quando la porta d’uscita è lì a due passi? Non lo so e non capisco. Forse teme di non essere creduta e che il caro maritino gliela farà pagare per averlo “sputtanato” in giro? Forse teme una rappresaglia ancora più violenta non appena rimetterà piede in casa?

Fatto sta che Maristella, più la guardo e più mi si presenta come un enigma. E’ una bella ragazza. E’ giovane, carina, capelli lunghi fino alle spalle e occhi nocciola da cerbiatta. Forse un po’ magrolina, per la sua altezza, ma fisicamente tutt’altro che da disprezzare. Conosco ragazzi più e meno giovani che si stenderebbero in una pozzanghera motosa a mo’ di ponte, per non farle sporcare le suole delle scarpe…e invece nulla…Maristella sta col tipo prepotente. Quello dal manrovescio facile. Quello che la rispetta come un Mocio Vileda usato. E, inspiegabilmente, qualcosa la trattiene dal cambiare aria.

Come ho detto, non sono un gran conoscitore della psiche femminile.

A suon di tentativi, comunque, la convinco ad aprire bocca. Perché Maristella non è stupida. Ha voglia di parlare. Di confidarsi con me. Non si fida ancora. Non completamente. Lì per lì non ne comprendo il perché…poi, pian piano inizio a capire. Per lei io sono solo un dottore. Uno che fa il suo lavoro. Non mi sto interessando veramente a lei, lo faccio solo per completare quelle otto canoniche ore di servizio che mi separano dall’andarmene a casa a farmi una doccia. Quando mi sarò fatto dire quel che voglio, per lei non cambierà nulla. Ritornerà dal marito manesco a riprendere tante botte. Allora perché parlare, si domanda lei. Tanto vale tener il becco chiuso e sopportare il clima che si respira a casa. Menata sì, menata e umiliata no.

Ma io non demordo. Le dico che mi sto interessando al suo caso, ma non per dovere professionale. Il giuramento di Ippocrate non c’entra nulla. Le dico che ho un motivo personale per farlo…

Perché è assai bella e perché sono single

…e cioè che quando ero piccolo mia madre…eeeehhhh, quante gliene ha fatte passare mio padre…

Ballista

“E tu cosa facevi?” chiede Maristella “Quando tuo padre…”

“Eh, mi nascondevo, piangevo…le solite cose, insomma” Non ve la faccio lunga. Le racconto un sacco di frottole del menga.

“E’ cominciata qualche settimana dopo il matrimonio”

Le parole le escono di bocca tutte assieme, come se quella fosse una verità scomoda da pronunciare. Una verità che se proprio deve uscire allora tanto meglio se esce in fretta in una sola frase.

Racconta a lungo e io la sto a sentire in silenzio.



Franco lo conobbi al liceo. Era uno dei tipi fighi della scuola, hai presente? Uno di quelli che gira con la giacca di pelle, la moto truccata e risponde male pure ai professori. Rispetto alla media degli altri ragazzi dimostrava quatto o cinque anni di più…noi ragazze stravedevamo per lui. Iniziammo a fare sesso subito dopo esserci conosciuti, subito dopo esserci messi insieme. Anche allora era uno che a letto voleva comandare tutto lui. Non che fosse violento…non come ora, almeno…ma insomma, sapeva quello che voleva e lo prendeva senza farsi troppi problemi. La prima volta eravamo al cinema. Stavamo guardando non ricordo più neppure che film.

Ad un certo punto lui mi dice “Questa merda mi fa dormire. Dai, datti da fare tu…” e mentre lo diceva mi appoggiò la mano sulla nuca e mi spinse la testa verso il basso. Non c’era molta gente, nel cinema, ed era molto buio. Franco mi strusciò la patta dei pantaloni sulla faccia. Mentre lo faceva sentivo il suo membro che diventava sempre più duro.

“Hai mai lavorato di bocca?” mi chiese.

Ed io “No, mai”.

“Ti insegno. Vedrai che ti viene bene”.

Si tirò giù la cerniera con una mano mentre con l’altra continuava a forzare la mia testa sul suo bacino. Mentre lo faceva non mi guardava neppure. Mi stava semplicemente adoperando per godere. Ero uno strumento di piacere, per lui, e niente di più. Il suo pene era già molto duro, quando tirò giù l’elastico delle mutande. Mi schizzò letteralmente in faccia. Era la prima volta che lo prendevo in bocca ad un ragazzo. Mi avvicinai con le labbra mezze chiuse e lo baciai.

“Apri la bocca” ordinò Franco. Io lo feci. Immediatamente sentii la cappella che mi entrava fra le labbra.

“Lecca” mi disse con fare altero.

Per dargli piacere feci come mi aveva detto. Non avevo molta esperienza e si vedeva. Cercavo di fare del mio meglio perché non volevo deluderlo. Non volevo che il ragazzo più carino della scuola si sbarazzasse di me al primo appuntamento, dopo aver sognato di essere la sua girlfriend per due anni. Lo lavorai di lingua e di labbra. Facevo quello che le cassette porno, le poche che avevo visto negli ani passati, mi avevano “insegnato”. Andavo su e giù, fino alle palle e risalivo fino alla punta. Al momento di staccarmi dal boccone mi rituffavo verso di lui fino a prenderlo completamente in bocca. Franco gradiva. Lo sentivo da come respirava. Lo sentivo dal movimento delle sue dita fra i miei capelli. Non era un movimento delicato. No, Franco mi premeva la testa non per accarezzarmi, ma solo per evitare che la mia bocca si rifiutasse di eseguire il compito che lui le aveva assegnato. Ma in quel momento non pensavo di scappare. Volevo terminare il mio compito e farlo per bene. E brava lo ero davvero, come ti ho detto, perché Franco si degnava di usare la mia bocca e la mia lingua per godere. Quando sentii che il suo respiro iniziava a diventare affanno ed i muscoli ben scolpiti dell’addome si contrassero, pensai che Franco fosse sul punto di venire. Ero pronta a sfilarmi ad un suo cenno. Invece, quando avvertii qualcosa di bagnato percorrermi il palato, la sua mano era ancora ben lungi dall’aver abbandonato la mia testa. Lo sentii irrorare il mio palato. Cercai allora di sollevare la testa.

“Cazzo fai?” disse lui, spingendomi con forza la testa verso il basso, verso il suo membro. Bevvi tutto. Tossii e inghiottii. Franco mi premette la nuca fino ad infilarmi tutto il suo pene in bocca. Il mio naso affondava fra i suoi peli, i suoi testicoli strofinavano i miei occhi. Per qualche secondo perdetti la percezione di dove eravamo e di cosa mi stava accadendo. Eravamo solo io, una foresta bruna davanti al mio volto e una cosa dura e grande che violentava la mia bocca.

“Ecco…adesso ti puoi sfilare” disse lui, quando la mia gola ebbe inghiottito tutto lo sperma prodotto dalle gonadi.

“Vatti a dare una ripulita, Mari, che poi ce ne andiamo. Questo film è un pacco assurdo”

E quella fu la nostra prima uscita. Rispetto a quel che sarebbe avvenuto da lì a poco era ancora nulla, ti assicuro.

Le sue pretese in campo sessuale rimasero le stesse per i primi due anni. Lentamente, però, la sua personalità prese il sopravvento. Io ero la sua ragazza, ma lui non era il mio ragazzo. Quando uscivamo in coppia lui camminava davanti a me. Frequentavamo i suoi amici, quasi mai le mie amiche. Quando mi presentava ad uno sconosciuto non si degnava di guardarmi, raramente mi rivolgeva la parola in pubblico. In genere ero lasciata lì, come un cappotto nell’armadio, finché non aveva terminato di monopolizzare la piazza con la sua baldanza ed i suoi modi da primadonna. Poi, semplicemente, al termine della serata mi veniva a riprendere e ce ne andavamo. Le mie amiche mi avevano accennato qualcosa al riguardo delle sue amanti.

“Franco ha altre donne. Si vede con quella e con quell’altra…”

Credo che la mia sottomissione fosse iniziata già allora. Perché dico questo? Perché non cercai di scoprire la verità, se Franco mi tradiva per davvero oppure no. Occhio non vede e cuore non duole, si dice. Ecco, per me era così. Mi voltavo dall’altra parte e facevo finta di nulla.

Fu lui a decidere che ci saremmo dovuti sposare. Decise anche quando. Avevo vent’anni, allora, e stavamo insieme da tre. Non ebbi nulla da replicare. Mi adattai pure a quella decisione. In fondo perché no? Aveva un buon lavoro, né meglio né peggio di altri. Avremmo abitato in un affitto in periferia, né più bello né meno bello di altri. Avremmo avuto un gatto, una utilitaria e qualche soldo da parte. Avrei terminato gli studi all’Università, facoltà di Scienze della Formazione, e mi sarei cercata un lavoro pure io. Franco era il lato forte della coppia, ma in quante coppie l’uomo è quello che comanda? In tantissime. Eppure non ci sono problemi. Non mi aveva mai picchiata, fino ad allora. Si faceva quel che diceva lui e tanto bastava perché la vita andasse avanti, in un modo o in un altro.

Ma dopo il matrimonio le cose cambiarono. E cambiarono in peggio.



Credo che la fede al dito rappresentasse un messaggio, per lui. Voleva dire che io gli appartenevo completamente. Era una specie di contratto. Col matrimonio mi aveva acquistato. Al ritorno dalla luna di miele ebbi la dimostrazione che Franco faceva sesso con altre donne.

Nel giro di un mese i nostri rapporti passarono da uno ogni due giorni a uno ogni trenta giorni. Per il resto, Franco usava solo la mia bocca. E’ quasi buffo da raccontare. Tornava a casa e la prima cosa che faceva era costringermi ad interrompere qualunque altra mansione stessi svolgendo in quel momento…fosse studiare, cucinare o farmi la doccia…e piantarmi il membro in bocca. Sia che lui rimanesse in piedi o che si mettesse seduto, dovevo inginocchiarmi quasi fossi la sua schiava e succhiarglielo fino a farlo venire. Naturalmente, nella mia gola.

Gli piaceva farsi leccare le palle e me lo chiedeva di continuo. Una sera, non contento di come avevo cucinato, mi rimproverò dicendomi che per una settimana, mentre lui mangiava, io sarei dovuta stare sotto al tavolo a fargli un pompino. Credevo stesse scherzando. Prima che la mia faccia fosse raggiunta dalla sua mano lo credevo veramente.

Quella fu la prima volta che mi picchiò. Per sette giorni Franco tornava ed io gli facevo trovare la tavola apparecchiata, servivo in tavola e mi andavo ad accucciare fra le sue gambe. Lui, nel frattempo, aveva provveduto a togliesi i pantaloni, la camicia e le mutande. Mi metteva il membro dritto di fronte al viso e cominciava tranquillamente a mangiare.

“Sai cosa fare. Lecca” ordinava.

Mentre obbedivo, Franco mi scherniva con battute e frecciatine alle quali non replicavo quasi mai se non per rispondere “Sì, Franco”

Immancabile la bevuta di sperma al termine del mio servizio. Siccome aveva le mani occupate con le posate, non potendo spingermi la nuca verso di sé, Franco era solito stringermi la testa fra le sue cosce. Si liberava a suo piacere e poi mi lasciava. In genere, avendo sbrigata l’incombenza del pompino prima del termine della cena, Franco esigeva che coadiuvassi ulteriormente il suo pasto massaggiandogli le palle con la lingua o con le labbra.

Ricordo che una volta, eravamo in salotto, mentre io lo servivo come era suo solito costringermi a fare, lui telefonò a qualcuno. Non mi disse che fosse l’interlocutore, né la distanza dal cellulare mi poteva permettere di udire il timbro di voce dell’altro, ma sono sicura che si trattasse di una delle sue amanti. La chiamò “cara” e poi “ci vediamo al solito posto”. Non avevo mai pianto, con il membro di Franco fra le labbra. Mai, fino a quel giorno.

Ma quando disse “Sì…beh, puoi indovinare, no? Cosa vuoi che faccia? Ti ho detto cos’è che sa fare per bene, te lo ricordi? Sì, anche adesso. No, con te no, figuriamoci! Sì, sì…a domani. Un bacio”

Mi venne in bocca in quel momento. Copiosamente. Stava parlando con la sua amante. Quella alla quale “no, con lei no …non la costringerebbe a fargli un pompino…figuriamoci”. E nel frattempo sua moglie, quella che sanno tutti cosa sa fare meglio, era prostrata a leccargli il cazzo.

Era troppo anche per me. Franco non se ne accorse. Se se ne accorse credo che non gliene importò più di tanto. Quelle che scendevano sulle mie guance non erano gocce di sperma. Erano lacrime.



Avevo ventidue anni quando anche i pompini non sembrarono più in grado di placare le sempre più bizzarre esigenze del mio “uomo”.

Ormai sembrava che la mia presenza gli fosse venuta a noia. Forse le sue amanti lo soddisfacevano meglio, sia di bocca che di vagina. Non lo so. So che Franco iniziò a degnarsi sempre più raramente della mia lingua. Il nostro rapporto stava per conoscere un nuovo stadio della degradazione. Da fidanzata ero diventata la sua troia succhiacazzo, adesso sarei stata la sua domestica. La sua sguattera a tempo pieno. Franco diventò sempre più esigente. A livello di casa dovevo sbrigare tutto io. Faccende domestiche, cucinare, stirare, pulire, fare il bucato e chi più ne ha più ne metta. Lui non muoveva più un dito. E poi, come è nella migliore tradizione degli abusi di coppia, aumentarono anche le botte. Se tornava nervoso da lavoro trovava sempre da ridire su come era stato passato il cencio sulle scale o come era stata stirata la sua camicia.

“Guarda il colletto, cazzo!” urlava “Ma io mi faccio un mazzo così per guadagnare due soldi e tu che cazzo fai? Come faccio ad andare a lavoro con questa cazzo di camicia? Eh?”

Frequente anche il rinfacciarmi che io ero quella che “Ancora a scuola, vai! Ma chi li riporta i soldi a casa, eh? Io lavoro per tutti e due! Almeno tu facessi quello che ti chiedo, ma no! Nemmeno quello! Allora mi devo incazzare! Dimmelo che vuoi farmi incazzare!”

Nei primi tempi la rabbia passava con un pompino. Magari un pompino rabbioso, di quelli in cui Franco, per spregio, mi fotteva fino in gola, umiliandomi nello sborrarmi sul palato. Ma quando la mia bocca cessò di essere così appetibile per i suoi istinti, non vi fu altro che gli schiaffi e i cazzotti.

E lì iniziò la vergogna.

Uscivo sempre meno spesso, da quell’appartamento. I lividi che avevo sulla faccia…erano come un segnale che avvertiva gli altri di quello che ero. Una donnaccia. Una che si fa mettere le corna. Una che non sa fare i lavori domestici. Una che scontenta il marito ogni sera, perché il marito lavora e io no. Una cornuta succhiacazzo che non guadagna il becco d’un quattrino e fa la mantenuta.

Una che il marito punisce, perché in fondo quello che riporta a casa il pane è lui.

Il secondo anno di matrimonio fu una buona scuola. Mi insegnò a subire in silenzio. A sopportare. E a convincermi che se ero sprofondata in quell’incubo, in fin dei conti, era solo colpa mia.

Ricordo che una volta se la prese con me perché la bolletta del telefono era, secondo lui, troppo cara.

“Stai tutto il giorno a parlare con tua madre! Ecco perché questa bolletta è così salata! Di cosa avrete da parlare, poi!”

Mi punì quella sera stessa, a letto. Prima mi prese in bocca, violentemente e con il sommo scopo di umiliarmi e farmi male, poi mi costrinse a stendermi sotto le coperte standomene tutta rannicchiata in fondo al letto. Dovevo trascorrere tutta la notte con la faccia sul suo “pacco mutande” come lo chiamava lui, pronta a soddisfarlo di lingua non appena ne avesse avuta necessità. Mi usò due volte, durante la notte. La prima volta fu poco dopo l’una. Sentii un forte dolore al petto, dove Franco mi aveva colpito con un colpo di ginocchio, poi la sua mano mi afferrò per la testa e mi premette con forza contro il suo bacino. Il suo membro era ancora molle. Si vedeva che non aveva alcuna intenzione di godere. Il suo solo scopo era quello di farmi sentire ancor più troia di quanto già non mi sentissi.

“Mastica il bastone, puttana!” disse con rabbia.

Me lo infilò in bocca talmente in profondità che pensai mi sarebbero scese in gola persino le sue palle. Entrava e usciva con foga, meccanicamente, colpendomi il palato con l’apice del pene quasi fosse un pistone. Cercai di dare a quel movimento un ritmo più tollerabile trattenendo l’andirivieni dei suoi lombi con le mani. Franco mi prese le mani e me le fece scendere alle sue cosce, poi mi schiaffeggiò due volte e mi afferrò per i capelli.

“Cazzo fai, stronza? Continua a pompare!”

Non contento del servizietto, si pulì l’apice del membro sporco di saliva e qualche traccia di sperma sui miei capelli e sul mio viso.

“Ora lo riprendi in bocca e te ne stai senza fiatare fino a domani mattina” mi ordinò “Ma non muovere la lingua. Lo so che ti piacerebbe, sei una prostituta mancata. Voglio solo che me lo tieni in bocca. Per stanotte non ti ci sborro più, in quella cazzo di gola. Non sei degna neppure di questo”

Feci come mi aveva imposto. Immobile, silenziosa. Stavo attenta a respirare il più piano possibile perché avevo paura che il mio solo alito tiepido potesse solleticare il suo pene e svegliarlo. Si sarebbe arrabbiato di nuovo con me. E mantenevo ferma la lingua meglio che potevo. Avevo paura persino ad inghiottire la saliva. Lasciavo che essa fluisse dalla fessura delle labbra fino a sgrondare sul materasso.

La mattina successiva Franco si svegliò di buon ora. Lo sentii sbadigliare rumorosamente. Accortosi che avevo mantenuto la mia posizione per tutta la notte e senza neppure dormire per un istante, scostò le lenzuola e mi fissò da sopra con fare cattivo.

“Lo dicevo io, che hai sbagliato mestiere. Guarda se all’Università c’è un corso per battona da strada. Ti darebbero la laurea ad honorem” disse “Visto che la mia stecca ti piace tanto falla spurgare nella fogna”

Sapevo già cosa fare. Per la terza volta dalla sera precedente mi ingegnai a fare un pompino da manuale all’uomo che mi aveva eletta ad elettrodomestico casalingo.

Anche questa volta venne dentro la mia bocca. Tanto per inventare una novità sul tema mi fece tenere in bocca lo sperma finché non si fu lavato. Poi mi disse di preparargli la colazione, sempre senza sputare né ingoiare quel repellente liquido pastoso.

Dopo quasi mezz’ora di quella tortura -avevo già i conati di vomito- mi disse di inghiottire fino all’ultima goccia.

La settimana passata ho finalmente incontrata la sua amante, o almeno una delle sue amanti. E’ una bionda longilinea e molto bella sia di viso che di corpo. Non so quanti anni abbia. Ne dimostra una ventina, ma potrebbe averne qualcuno di più. Franco mi ha chiamata sul tardi.

“Sto per arrivare a casa. Non sono solo e non voglio che tu ti faccia trovare in giro. Vattene da tua madre, nasconditi sotto al letto, nello sgabuzzino o chiuditi in garage. Non mi importa cosa farai, ma voglio casa libera, ci siamo intesi?”

Non mi diede tempo di replicare e attaccò il telefono.

Così mi nascosi nello sgabuzzino. E’ una stanza piccola, ma abbastanza ariosa, ingombra di roba ma sufficientemente ampia da ospitare due o tre persone.

Mi nascosi lì ed attesi il ritorno suo e del misterioso ospite. Lo sentii rientrare pochi minuti più tardi con questa bella bionda.

Non erano ancora entrati e già le loro labbra erano incollate le une alle altre. Stentavo a ricordare l’ultima volta in cui io e Franco eravamo stati così. Forse non c’era mai stata.

La ragazza -Monica, intuii che si chiamava- cenò a tavola con mio marito. Parlarono del più e del meno, dell’azienda del padre di lei e di me. Sì, anche di me. Franco le disse che non c’era problema se si incontravano a casa nostra, perché “quella cornuta”, cioè io, sapeva già ogni cosa.

Andarono in salotto e dai gemiti che udii compresi che stavano facendo l’amore. Stessa scena a letto. Il nostro letto.

Ma il momento clou della serata era là da venire. Franco si era accorto che la mia macchina era ancora in garage, quindi non potevo essere tornata dai miei. Guardò sotto al letto e non mi trovò. Allora venne a cercarmi nello sgabuzzino. Sentii aprire la porta. I miei occhi non erano ancora abituati alla luce che la sua mano mi prese per i capelli e mi trascinò fuori, sbattendomi in ginocchio sul pavimento. Di fonte a me vidi le splendide gambe di Monica. Calzava scarpe decolletè molto costose e in breve capii come mai Franco le riservasse un trattamento così tenero e scrupoloso. Era la figlia del suo dirigente.

Monica era una ragazza viziata. Mi guardò sghignazzando dall’alto del suo metro e ottanta, indicandomi con un dito.

“Tua moglie?”

“Sì” disse Franco.

“La fai dormire nel ripostiglio?”

“Ogni tanto. Quando non fa la brava”

Mi prese per il bavero della camicia e mi spinse in basso, proprio accanto ai piedi della sua amante. Monica allungò una gamba e mi strofinò il dorso e la suola della scarpa sulla faccia. L’odore del cuoio mi raggiunse le narici.

“Dai, mogliettina…saluta come si deve” disse Franco.

Me ne rimasi zitta come un pesce. Non avevo bisogno di parlare. Sapevo cosa volevano quei due. Volevano solo umiliarmi. Perciò feci per loro un piccolo show. Mi prostrai di più e andai a posare un bacio sulle scarpe della donna. Monica scoppiò a ridere come una pazza. Ruotò il piede e mi ritrovai davanti al volto il tacco e la suola. Baciai anche quella. Il tacco, invece, lo succhiai come un membro maschile.

“Vedi come pompa bene?” disse Franco “E’allenata. Qualunque oggetto di forma fallica tu gli metta davanti al viso, la sua reazione è sempre quella”

“Ah, sì?”

“Vuoi vedere?”

“Dai! Certo che voglio vedere! Fottila in bocca!”

Franco non si fece pregare. Benché, come ho detto, non adoperasse più la mia lingua come durante i primi anni di matrimonio, di tanto in tanto non disdegnava di somministrarmi la sua dose di sperma.

Mi fece fare un pompino davanti a Monica, mentre quest’ultima, al suo fianco, si strusciava languida contro le sue spalle, baciandolo con trasporto.

Il piacere di quell’uomo mi espose in bocca, facendomi tossire e causando un’ennesima ridda di risa dalle bocche dei miei padroni.

Dopo il servizio a Franco fui mandata a sciacquarmi la bocca con l’ordine di tornare in camera al più presto. E venne anche per Monica il momento di usarmi per il proprio piacere. Quando fui di ritorno in camera era distesa sul letto a pancia in giù. Pretese, sotto lo sguardo attento di Franco, che io le baciassi i glutei, che glieli leccassi, che mi trasferissi al solco fra le natiche e che lì iniziassi da principio. Prima i baci, poi dei colpetti di lingua ed infine lappate lente e ampie.

“Mmmm…mi sto bagnando” disse sorniona “Ci sa fare, la mogliettina!”

Franco era dietro di me. Con una mano mi spingeva la testa fra le chiappe dell’amante. Ad un certo punto Monica fece un cenno con la mano e lui mi tirò indietro. La donna si voltò rivolgendo verso di me il suo sesso.

“Ora leccami lì” ordinò.

Non l’avevo mai fatto. Non avevo mai leccato il sesso di un’altra donna. Dentro di me ebbi un moto di repulsione e feci per allontanarmi. La serata, a giudicare dall’espressione piena di libidine di quei due, era appena iniziata. Per me, invece, terminò in quel preciso istante.

Franco non poteva sopportare una così maldestra ribellione da parte del suo oggetto. Mi colpì con un pugno così forte da staccarmi i piedi da terra. Sbattei contro il comodino e svenni. Per rallentare la caduta mi lussai le dita. L’ultima cosa che ricordo fu l’immagine di Monica, bellissima e sensualissima, distesa sul mio letto completamente nuda che massaggiava la sua vagina in attesa della mia lingua.



“E poi?” chiesi.

“E poi mi sono risvegliata in ambulanza”

“Ti hanno portata direttamente in ospedale?”

“Sì”

“Lo hai denunciato?”

“No”

“Fallo”

“No”

“Fallo. E’ meglio”

“Voglio solo tornare a casa, adesso” disse Maristella “Ho fatto male a raccontare tutto ad un estraneo”

“Rispondi sinceramente. Come mai non ti sei mai allontanata da quell’uomo?”

“Non…”

“Tornerai da lui?”

La ragazza abbassò lo sguardo. Era un sì. Inequivocabile.

“A farle da serva e sacco per gli allenamenti?”

“…”

“E a leccare le natiche alla sua amante”

“…”

Non era una situazione semplice. In questi casi forze dell’ordine e assistenti sociali servono a poco, se la vittima non fa il primo passo…non è detto che servano a molto neppure se la vittima si ribella, compila una denuncia in regola e cerca di cambiare aria! Figuriamoci se decide di subire passivamente ogni sopruso!

Ma certe situazioni possono essere risolte anche per vie traverse e non del tutto ortodosse, qualche volta. In particolar modo se un professore di medicina s’interessa al caso di una paziente che riesce a conquistare il suo affetto.

“Rispondi solo a questo, Maristella. Se io ti dicessi che c’è un modo per non avere più nulla a che fare con Franco, se ti dicessi che lui e tutto il marciume che gli gravita attorno scompariranno dalla tua vita, ora, per sempre e in maniera definitiva…se io ti dicessi che quando deciderai di accettare il mio aiuto, in alcun modo dovrai avere da temere le sue ritorsioni e le sue vendette, allora acconsentiresti a dire di sì alla mia proposta?”

La ragazza sollevò lo sguardo. Per la prima volta da quando ero entrato nella sua camera scorsi in lei un fioco bagliore di entusiasmo.

Non mi rispose, ma ciò non aveva importanza. Questa volta decido per lei, mi dissi. Ma a differenza del bastardo che la attendeva a casa per riprendere a picchiarla, non lo avrei fatto per recarle un torto.



Con qualche imbroglio alla mutua e una parolina buona al primario, non è difficile inventare una complicazione osteo-muscolare abbastanza grave da richiedere due settimane di degenza. Maristella trascorre due settimane all’ospedale. Non un bel posto, lo ammetto, ma sempre meglio di una palestra domestica dove vieni adoperata come pungiball. Contemporaneamente, il signor Franco viene richiamato dalla locale sede dell’ASL per ricordargli che, diventando donatori di sangue, si può fruire di un controllo gratuito sullo stato di salute del soggetto. Dai test per il controllo della sieropositività all’emocromo. Si sa che per una persona che fa sport è importante.

“…poi, mica uno deve andare a donare sangue tutti i mesi…basta anche una fialetta oggi e una fra sei mesi…”

“E tutti gli esami gratis?” chiede Franco.

“Come no! Diventare donatori conviene!” assicura un misterioso addetto dell’ASL di cui nessuno conosce nome o generalità.

Ma i risultati del signor Franco sono alquanto bizzarri. Epatite B conclamata. Ricovero d’urgenza e senza indugi. Poi iniziano gli esami in una struttura adeguata, gli accertamenti sullo stato di progressione del virus ecc ecc…Una flebo qua e una flebo là il signor Franco, invece di migliorare peggiora sempre più. Nell’arco di dieci giorni subisce un tracollo da piaga biblica. Una vera disdetta, per un ragazzone così alto e in salute…

L’ultima volta che lo vedo va per un trapianto del fegato. Chi l’avrebbe mai detto che i metalli pesanti nel sangue facciano quest’effetto? Ho conosciuto anche la signorina Monica. E’ venuta un giorno a trovare Franco. Non l’ha trovato bene. Niente più fascino, muscoli e batacchio duro come legno…per la bionda figlia di papà poco ne viene. Basta cambiare amante. Ma intanto il signor Franco perde il lavoro. E con quello la sua dignità. Senza la sua prepotenza chi ha più paura di lui? Ora è lui a temere gli altri.

Maristella ha ottenuto il divorzio. Ora è libera di andare con chi le pare e piace. Stiamo insieme da un paio di mesi, non so quanto durerà e se durerà, ma per ora ce la passiamo bene. Si sta riabituando ad avere un uomo che prima di chiedere qualcosa dice “per favore”. L’unica cosa che le ho imposto, per così dire, è di riprendere i suoi studi all’Università. Almeno la laurea Triennale. Le mancano pochi esami e la tesi. Credo le farà bene ricordare le vecchie abitudini, riprendere in mano i libri, concentrarsi su qualcosa che non siano lividi, lussazioni e pompini. Farà bene alla sua autostima.

Staremo a vedere come andrà a finire.



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I vostri commenti su questo racconto
Autore: Demonblu Invia un messaggio
Postato in data: 11/12/2020 16:01:36
Giudizio personale:
Non amo la violenza, in qualsiasi forma viene espressa, ma se un briciolo di vero appartiene a questo bello e apprezzabile scritto, oltre al porsi del tipo, maschilista e privo di tutto il nobile dell'umano, l'accuratezza del raccontare e descrivere è buona, urta con l'eccitabilità e l'immaginazione... per il resto... dolci notti e...


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