i racconti erotici di desiderya

Maria


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Io sono una di quelle che quando ne ammazzano una la chiamano puttana.



A diciotto anni lasciavo il paese, con poche lire in tasca e molte speranze. Erano in tanti a partire in quegli anni dopo la guerra, chi andava all’estero e chi come me saliva al nord. Ottenuto un indirizzo da un’amica mi ero sistemata all’ “Osteria del Naviglio” di Milano. Mio padre era morto da qualche anno per cirrosi e mia madre doveva badare ai fratelli più piccoli e con la misera pensione cercare di mandare avanti la famiglia. Avevo una formazione di parrucchiera in tasca e questo avrebbe dovuto assicurarmi da vivere, almeno così credevo. Ma il lavoro non arrivava e i soldi finirono. Ero una bella ragazza, con i capelli neri, lunghi e ondulati, un viso dolce ma innocentemente provocante. Di questo si era ben presto accorto anche il macellaio e non aveva impiegato molto a farmi capire che le bistecche avrei potuto pagarle anche in altro modo.

-Buon giorno signora, cosa le posso servire oggi?- dice il cameriere.

-Un buon caffè francese, come tutti i giorni, Jerome! Sono sei anni che frequento il “Bistro’ de la Tour Eiffel” e Jerome è sempre così gentile da chiedermi cosa desidero! Rimorsi? Non era il momento di guardare dentro la coscienza, io davo e ricevevo e tanto mi bastava. Dopo il macellaio si aggiunsero il fruttivendolo e i milanesi con le lire e così, quasi senza accorgermene, entrai nel giro. Spedivo qualche soldo a mia madre, poi, man mano che il tempo passava, il paese sembrava allontanarsi, quasi estraneo dai miei pensieri, poi ho smesso di scrivere e di soldi non ne ho più inviati. Nei momenti di stanca o per riprendermi dal freddo entravo nel bar, scambiavo qualche chiacchiera con Pepè, anche lui del mio paese, poi, man mano che le ore si facevano piccole, prendevo un caffè sempre più ristretto, almeno fin quando l’osteria non chiudeva; ogni tanto pagavo, la maggior parte delle volte contraccambiavo. No, non facevo distinzioni, non potevo scegliere, giovani, anziani, morti di fame e signori. Come ho già detto io davo e loro ricambiavano in moneta e questo era quello che mi importava. Pepè, a suo modo, mi voleva bene, sperava che andassi a vivere con lui, ma miseria con miseria avrebbe portato solo ulteriore miseria. Ogni tanto mi trasferivo in campagna, nelle locande di piccoli paesi lombardi, per la quindicina di battaglia; chi è del mestiere sa cosa vuole dire. Tornavo distrutta ma con una buona riserva in tasca la quale mi permetteva di non uscire per un paio di sere e di togliermi qualche sfizio. Tanto guadagnavo e tanto spendevo, finalmente l’agiatezza avrebbe avuto il sopravvento sulla povertà, mi sentivo orgogliosa di poter dire di avercela fatta, di essere arrivata al punto laddove il potere e l’energia effimeri del denaro ti fanno sentire improvvisamente una persona rispettabile e ti pone su un altro piano nella scala sociale, ma quante illusioni; dopo la guerra c’era fermento economico, i commerci riprendevano, arrivavano sul mercato i primi testimoni del progresso, l’utilitaria, la lavatrice e il frigorifero. Ricordo di essere stata una delle prime, almeno nel quartiere, a possedere un televisore e prima ancora ad acquistare una macchinetta per la preparazione del caffè con un gruppo a pistone, della quale andavo fiera. La portavo con me durante le settimane fuori Porta dove, quasi mai, si usciva dalla camera. Ho sempre abitato nel monolocale sopra l’osteria e consideravo il bar come il mio soggiorno,

praticamente un appartamento su due piani. Nei momenti di riposo trascorrevo ore, tra un caffè e l’altro, a riflettere sulle pazzie del passato e a tessere improbabili sogni per il futuro. Ripensandoci, la mia vita è sempre stata contrassegnata dal caffè che amavo e gustavo fino in fondo e gusto tuttora nelle diverse varianti: per anni la giornata è iniziata con un espresso cremoso, untuoso e carico di gusto, quello che buttavo giù d’un fiato e che mi copriva tutti gli odori e le porcherie della notte, che mi permetteva ancora una volta di voltare pagina, con la lingua pressata sul palato e gli occhi chiusi per assaporare, fino all’ultima sfumatura, gli aromi più nascosti, seguìto subito dopo da un caffè più lungo, che sentivo salire dolcemente al cervello per diffondersi in seguito su tutto il corpo e farmi capire che ero veramente sveglia; oggi lo preferisco alla francese, preparato nei due classici bricchi. Un mio cliente una volta mi aveva messo al corrente, a proposito di questa passione, di avere un amico che si chiamava Voltaire, almeno così mi pare, che del caffè diceva: - ho continuato ad avvelenarmi per più di cinquant’anni e non sono ancora morto -

-Lo zucchero per favore, Jerome!- E’ un bravo ragazzo ma tanto sbadato!

Sono rimasta a Milano per cinque anni poi lentamente ma inesorabilmente l’ambiente andava facendosi sempre più ostile, erano arrivate altre donne nel quartiere con i loro uomini a dettare legge; dovevo adattarmi alle nuove regole o altrimenti cambiare aria. Optai per la seconda soluzione. Pepè

era già partito, invaghitosi di una rossa del Lodigiano si erano trasferiti a Como dove, mi si diceva, avevano creato un loro giro. Per pochi soldi vendetti tutto e lasciai l’Italia per la Francia, senza rimpianti e senza mai voltarmi indietro. Mi rimase la macchinetta per il caffè, testimone di un periodo di speranze, di illusioni e forse anche di qualche occasione perduta. Qui a Parigi sembrava che la fortuna avesse trovato in me un punto di riferimento; le ragazze del sud esercitavano ancora un fascino particolare sugli uomini e anche Pierre fu attratto dai miei capelli e dal mio volto sempre dolce ma innocentemente provocante, nonostante le battaglie. L’avevo avvertito di lasciar stare - per la verità senza troppa convinzione -,di non coprirmi di vestiti e di gioielli, di non pagarmi l’affitto per un appartamento in centro...., ma lui aveva insistito, perso com’era nel mio corpo e nei suoi soldi. Andò avanti per tre anni. Incontravo Pierre un paio di volte la settimana, per il resto non avevo niente da fare; ci si abitua in fretta a frequentare i negozi delle grandi firme e i ristoranti famosi. Il venerdì era consuetudine trascorrere la serata da “Chez Maxim’s” divenuto luogo di mondanità e personaggi celebri e li avevamo il nostro tavolo fisso, sempre riservato. Pierre era figlio di un noto gioielliere parigino ed il personale ci copriva di attenzioni, ma sapevo benissimo che il marchio che mi portavo addosso era ormai indelebile: quando hai esercitato questo mestiere rimani bollata per tutta la vita e te ne accorgi da come i camerieri ti guardano e ti sorridono maliziosamente. Devo ammettere che si mangiava bene, sublimi erano le specialità di pesce e le uova di quaglia al caviale, superbo il caffè parigino, un misto di caffè, cioccolata, cognac e zucchero miscelati e guarniti con panna. Il tempo libero mi portò a scoprire anche luoghi per me fino allora sconosciuti, volevo improvvisamente far mia una cultura che per tanti anni mi era mancata e iniziai a frequentare assiduamente e morbosamente musei, teatri e librerie e li, fra i tanti, apprezzai il Verga e i “Malavoglia”. Rividi in padron ‘Ntoni mio padre e nelle viuzze di Aci Trezza riconobbi il mio paese e il mare, il mio mare. Sarei voluta tornare dopo tanti anni in Sicilia, magari in incognito, senza avvisare nessuno, assaporare ancora una volta l’aria di casa e fissare definitivamente nella memoria i luoghi e i profumi della mia adolescenza, ma gli avvenimenti precipitarono; il padre di Pierre venne a sapere delle strane frequentazioni del figlio e dei gioielli che sparivano dal negozio; nel giro di pochi giorni Pierre si trovò a Los Angeles a dover gestire una loro filiale. Improvvisamente mancarono i soldi, l’appartamento in centro e i gioielli che dovetti ritornare al padre infuriato e ancora una volta rimasi unicamente con la mia macchinetta con un gruppo a pistone. Annegavo nuovamente nel caffè la disperazione della solitudine e la paura di ritornare sul marciapiede, di dover ricominciare ancora una volta da capo. Adesso sono qui al “Bistrò de la TourEiffel”: fra poco qualcuno passerà a prendermi con la limousine e mi porterà al lavoro, come tutte le sere.



Giovedì 9 novembre 1961

LE FIGARO

STRANGOLATA DONNA AL BOIS DE BOULOGNE

Si tratta di una puttana di origine straniera nota nell’ambiente

con il nome di “Maria la caffettiera”



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I vostri commenti su questo racconto
Autore: Coppianonsolosesso75 Invia un messaggio
Postato in data: 16/08/2009 11:12:56
Giudizio personale:
Bellissimo e scritto molto bene. Di alto livello.


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